Sangano
La chiesa parrocchiale dedicata a
San Solutore
La nuova chiesa parrocchiale
Il sepolcreto della chiesa parrocchiale —
foto
La chiesa parrocchiale tre anni per edificarla, cento
per terminarla
Una piccola comunità valdese
Dizionario geografico Goffredo Casalis
Abbazia di Sangano
Disegno per la pianta della Chiesa nuova, per la costruzione della casa Parochiale
nel sito della Chiesa vecchia, sito della Prevostura, et Piazza di Sangano
del 1706.
Non eseguito quanto alla Chiesa stata
poi costrutta fuori del recinto
qui delineato e nel sito segnatosi poi con una stella,
Alla casa parrochiale si è aggiunta una fabbrica rustica in testa verso
levante
Disegno per la pianta della Chiesa nuova, e casa Parochiale di Sangano
A – Parere d’una piante della Chiesa nova nel angolo e facciata della Piazza
B – Parere per la costruzione della Casa Parochiale nel sitto della Chiesa vecchia servendosi delle muraglie vecchie colorite in rosso
C – Sitto della Prevostura parte cinto di muraglia
D – Piazza di Sangano
* Dove la Chiesa è stata poi costrutta
Disegno, scala di trabucchi quattro
La chiesa parrocchiale dedicata a San Solutore
Si è accennato alla chiesa vecchia dedicata a San
Solutore, edificata poco dopo la visita pastorale del 1584, al posto dell'antica
chiesa benedettina di Santa Maria dell'Assunzione, sita nell'area del castello.
Alla romanica chiesa di Santa Maria dell'Assunzione, esistente in Sangano
prima dell'anno 1000, citata nella donazione di Gezone (a. 1006) e nella conferma
di donazione del vescovo Landolfo (a. 1011) a San Solutore.
Tale chiesa benedettina era ancora adibita al culto nel 1584-85, quando a
Sangano venne in visita pastorale il canonico Loseo Cesare, arciprete della
cattedrale di Torino, inviato da monsignor Peruzzi, vescovo di Sarsina. Il
Loseo lasciò della visita alla chiesa abbaziale una relazione molto
negativa che in parte riproduciamo tradotta dal latino.
... In questa chiesa non si conserva il SS. Sacramento per
la povertà di questo edificio. Visitò anche il fonte battesimale,
constatò che era di pietra ma posto in luogo non adatto... perciò
ordinò che si dovesse costruire un altro fonte da collocare a lato
dell'aitar maggiore, ornato da una piramide in legno da coprire col suo coperchio
di tela verde e che fosse circondato da una balaustrata in legno, e all'interno
della balaustra stessa e che davanti al fonte battesimale fosse costruito
un sacrario o piscina.
Visitò successivamente la sacrestia che constatò piuttosto malandata
nelle sue strutture, perciò ordinò che fosse risistemata, ampliata
e dotata di un lavello per l'abluzione delle mani dei sacerdoti, e anche di
armadi per ritirarvi i paramenti.
Vide l'altare maggiore sotto la volta di una cappella dipinta, ma scrostata
per il tempo e perciò ordinò che la cappella dovesse essere
tutta intonacata e imbiancata; del resto l'altare è consacrato come
si dice e spoglio, mancante di quasi tutti gli accessori indispensabili; perciò
ordinò che dovesse essere adornato con una icona decente e munito di
una croce, di candelieri e di tutto ciò che è necessario. L'altare
della gloriosa Vergine che si dice appartenga alla Compagnia del S. Rosario
è ornato in modo indecoroso (indecenter ornatum) e perciò ordinò
che fosse ampliato, provvisto di una icona, di una croce, di due candelieri,
di una tovaglia, di uno sgabello di legno e d'un altare portatile consacrato.
Altri quattro altari indecentissimi (altaria indecentissima) e completamente
spogli ordinò che fossero demoliti entro otto giorni e continuando
la visita della chiesa, la vide poco stabile nelle strutture essendo in qualche
parte scoperta, tutta scrostata e non pavimentata; perciò ordinò
che dovesse essere di nuovo ricoperta, intonacata e imbiancata, che fosse
sistemato il pavimento nel termine di un anno, pena l'interdizione al culto
(alias mandavit ecclesiam ipsam interdici). Vide anche il cimitero che non
è ben chiuso e ordinò di chiuderlo bene e che nel mezzo vi fosse
eretta una croce.
Non c'è la canonica e il rettore abita in una casa presa in affitto
(in domo conductitia)...
La casa affittata, come vedremo in seguito, era quella della
Congregazione di S. Spirito.
È probabile che il rettore (don Giovanni Oddono) abbia ritenuto più
conveniente intraprendere la costruzione di una nuova modesta chiesetta nelle
vicinanze, anziché andare incontro a una ingente spesa per restaurare
la grandiosa abbaziale a due navate.
Ciò spiegherebbe così l'abbandono della chiesa romanica e la
sua progressiva demolizione che fu completata verso la fine del Settecento.
La nuova chiesa fu aperta al culto probabilmente già l'anno seguente
(1585), altrimenti ci sarebbe stata l'interdizione, e sorgeva dove è
ora la casa parrocchiale.
La chiesa abbaziale romanica diventò la "chiesa vecchia".
Sta di fatto che, quando nel 1595 venne in visita pastorale monsignor Broglia,
trovò una chiesa nuova dedicata a San Solutore.
La relazione dice:
Ho visitato la chiesa di San Solutore [omissis]. La chiesa è in buono
stato e, poiché quella di S. Maria dell'Assunzione è diroccata
e per comodità della gente fu trasferita con l'esercizio del culto
altrove alla chiesa attuale e detta parrocchiale [S. Maria dell'Assunzione]
solamente è considerata cimitero, quello è aperto da ogni lato
e profanato.
(Ecclesia bene se habet et quia ecclesia S. Mariae Assumptionis est diruta
et prò commoditate populi eius alias cum exercitio traslata fuit ad
presentem ecclesiam et dieta parochialis dumtaxat habetur prò coemeterio,
quod coemeterium est undique apertum et profanatum).
Oltre l'altare maggiore, c'è quello del Rosario affidato
alla Compagnia omonima: l'uno e l'altro tenuti in modo decoroso (decenter
ornatum).
Non c'è sacrestia.
Una descrizione più precisa ce la fornisce la relazione della visita
di monsignor Beggiano (9 ottobre 1673), mentre è curato don Vachio:
corpo della chiesa a un'unica navata, due altari laterali: del Rosario, al
cui decoro provvede la Compagnia che annovera ben 100 confratelli, e della
Natività di Nostro Signore Gesù Cristo.
i morti vengono seppelliti nel cimitero della chiesa abbaziale.
Vi si dice:
Poiché presso la parrocchiale moderna non c'è cimitero, ordinò
che la medesima vecchia chiesa fosse adibita a cimitero per inumare le salme
dei defunti e che l'antico cimitero fosse convertito ad uso profano.
(Et quia prope candem parochialem modernam nullum adest coemeterium, mandavit
eadem ecclesia veteria adhiberi prò coemeterio ad humanda cadavera
defunctorum et coemeterium antiquum in usu profano conversurum).
L'antica chiesa è ormai senza tetto e altari (Vidit
in castro... ecclesiam paulo antiqua sine tecto et altaribus). La nuova è
senza campane, mentre la torre ne ha ben tre; allora ordinò che una
di esse fosse poi portata alla parrocchiale moderna (unam mandavit transferri
ad parochialem modernam).
Da allora quindi l'antica abbaziale venne adibita a cimitero.
II prevosto don Artucchi, con la consueta diligenza, ci ha lasciato una "Descritione
delli mobili et supeletilli che si ritrovano nella chiesa parrocchiale di
Sangano, come pure delli stabili e redditi lasciati alla medesima":
Croce grande da portare in processione, col Cristo, figurine
e placche d'argento con una iscrizione
al piede di essa: Amedeus Romagnanus.
Epi(seopus) montis Regalis, abbas Sangani f[ecit] f[ieri].1507;
pisside ordinaria della capacità di 150 particole,
il piede e il coperchio d'ottone e la sola coppa d'argento al di dentro dorata;
due calici, uno nuovo e l'altro vecchio, entrambi con patena di ottone e coppe
solo d'argento al di dentro dorate;
croce di ottone ordinaria da portare in processione;
una pianeta, tunicella; contro altare e velo da calice tutti in damasco rosso
col gallone e piccole frange "d'oro fatuo", usitate;
altre tre pianete, una nera e due di colore, già molto usitate, quattro
borse, quattro veli da calice, il tutto usitato;
tre camici, un rocchetto, due cordoni, il tutto ben usitato, due grandi veli
per far la benedizione, un piviale di catalaffa usitato;
un baldacchino novo di satino da portare in processione, altri due baldacchini
piccoli per far l'esposizione del SS. Sacramento;
tre tovaglie molto usitate per l'altare maggiore;
sei candelieri di bosco argentati molto usitati;
due candelieri di ottone piccoli di peso circa 5 libre [1,850 kg]
un lampadario di maiorica e lampade;
un conopeo di seta indiana da mettere attorno al tabernacolo;
due vasetti di stagno per olii santi;
una piccola campanella di un rubbo circa di peso et altra piccolina da toccar
nel sortir della messa et campanino per sonar il sanctus, d'ottone;
un messale vecchio et molto usitato con cartella da morto;
un turibolo d'ottone usitato, navicella di tolla;
quattro vasi di bosco indorato molto usitati senza però li fiori;
una ber[r]etta molto usitata e una cornice indorata che serve per ornamento
del contro altare.
Segue una dichiarazione di F.sco Ferrerò fatta davanti
al notaio e all'abate Rippa nel 1684:
Bisogna anche agiungere un banco della Comunità fatto costruire da
don Vachio per servitio della chiesa maggiore ai parroci e sacerdoti officianti
le messe grandi e altre persone.
Segue l'elenco degli stabili e dei redditi:
Primo la casa senza mobili di nessuna sorte, horto, verzero,
il tutto simultaneamente attiguo alla chiesa parrocchiale et piaza de presente
luogo.
Più un canapile di tre quarti di giornata circa alla Braida, confinante
li beni del castello di Sangano et il torente Sangone.
Più una giornata et mesa circa prato in Lilla et otto giornate circa
goretti attigui coerenti li beni delli heredi del fu Sig. Conte Sebastiano
Baronis et il torrente Sangone.
Più le decime sopra il finaggio di Trana, nella regione S. Bono, et
Ausoni alla Costa del Venteno - grano et spighe sopra il luogo, cioè
di 20 corbelle di spighe, una, et ogni 20 gerbe, una alla chiesa ò
sia paroco di Sangano, incominciate detta regione di racogliere dette decime
alla sudetta Capella di S. Bono sotto il miolaro tendente a drittura di Sangone
et fino alla Cascina delli heredi del fu Sig. Conte Sebastiano Baronis.
Più emine due segala pagabili dalli heredi del fu Sig. Conte Federico
sopra l'Alteno delli Ausoni ogni anno in luogo della decima del grano.
Più altro canone di emine due di segala pagabili dalli heredi del fu
Sig. Conte Sebastiano Baronis sopra il Castegnaretto in Lilla coherenti li
beni sudetti della chiesa parrocchiale del predetto luogo.
Più liure cento settanta pagabili ogni anno hora a semestri hora a
mesi dalli Sig.ri Abbati di detto luogo di Sangano.
Più due processi di scritture dalle quali consta la raggione delle
decime che ha il parocho di Sangano di raccogliere sopra il finaggio di Trana
et regione di S. Bono et Ausoni; et non altro.
A proposito delle 170 lire che gli abati devono ai parroci di Sangano, esiste un'attestazione rilasciata sotto giuramento il 16 agosto 1692 davanti a testimoni e al regio ducal notaio dal priore don Giovanni Bronzini, consigliere e segretario di Stato e delle Finanze di S.A.R., al prevosto Lodovico Artucchi, nella quale dichiara di
essere informato che l'Abate Commendatario di S. Solutore è sempre stato solito pagare annualmente alli Sig. Prevosti e Curati [omissis] della chiesa parrocchiale di Sangano la somma di livre 170 ducali moneta di Piemonte per l'honorario de medemi Sg.ri Prevosti, e da venti e più anni in qua si sono sempre pagati in due termini [omissis] cioè la metà alla festa di S. Giovanni Battista di giugno et l'altra metà a quella del SS. Natale di cadun anno et livre 22 per la spesa necessaria che si usa farsi nella festa dei SS. Solutore, Avventore e Ottavio titolarii della detta Abbadia, la quale si celebra sotto li 20 di novembre, che da parecchi anni in qua pur si sono pagate al medemo Prevosto che le somministrava nel termine di Natale.
Il Bronzini afferma di saperlo per aver dimorato per molti
anni in casa del gran cancelliere Baschetto nella cui casa abitava pure la
madre di monsignor Rippa, perciò ebbe occasione di prender visione
di carte e libri essendo anche incaricato da monsignor Rippa di riscuotere
gli affitti dell'abbazia, di recapitare ai prevosti gli importi di cui sopra
e di ritirarne le ricevute.
Segue nello stesso fascicolo dell'archivio parrocchiale di Sangano la "Descriptione
delli Legati lasciati alla chiesa parochiale et loro obbligationi":
Primo un prato in Dorgniano d'una giornata circa coherente
a due parti il Sig. Priore Rochi, Giuseppe Cugnetti et li heredi del fu Pietro
Picho lasciato dal fu Gabriel Vachio come consta dalla dichiarazione delli
ondeci di febraro 1694 con obligatione alli parochi del presente luogo della
celebratione di messe tre annue in perpetuo in suffragio dell'anima del sudd.
Vachio legatario.
Più meza giornata di prato in Lilla coherenti li eredi del fu Giov.
Barone, Gio Domenico Bosco, Gio Domenico Gioanino e Antonio Gioanino ceduto
alla chiesa del Sig. Antonio Rosso con obbligo alli parochi di pagar le taglie
et di messe tre annue lasciate dal fu Martino Bertetto come suo testamento...
Le descrizioni dei beni mobili, immobili e lasciti ci forniscono
l'esatta situazione patrimoniale della chiesa di Sangano non soltanto nel
Settecento, ma anche nei secoli precedenti, perché essa aveva ciò
che San Solutore le aveva concesso nel tempo e non era facoltà dei
rettori della chiesa cedere e alienare beni del suo patrimonio.
In breve: possedeva la casa (senza mobili, che erano quelli personali di ciascun
parroco), l'orto il giardino attigui, un canaprile di circa 2750 mq, un prato
di 5700 mq, 30.000 mq, di goretti.
Nel Settecento si aggiunsero 5700 mq, di prati avuti in lascito.
Si può asserire che il reddito della chiesa era soprattutto costituito
dalle decime che riscuoteva in Trana.
Richiamiamo per un momento le donazioni di Gezone a Landolfo. Secondo esse,
l'abbazia possedeva tutta la corte di Sangano e in essa la pieve con tutte
le decime ad essa spettanti, la valle Novellasca, Palassoglio, Reano, Cunzano
e le loro decime, comprese quelle di Trana [in S. Bono e Ausoni alla Costa
del Venteno].
I terreni sui quali le riscuoteva erano abbaziali, goduti da massari, abbaziali
erano quelli del conte Baronis e degli eredi del conte Federico per i quali
riceveva un canone.
Pianeta nella casa parrocchiale a Sangano - anno 1914 foto
Secondo Pia
Archivio Museo della Sindone
Rilievo della chiesa dei Santi Martiri
Prospetto ovest
Prospetto est
Prospetto nord
Prospetto sud
AA
BB
Schizzo prospettivo
La
nuova chiesa parrocchiale
Le reliquie, i suoi fabbricieri
La chiesa attuale, iniziata nel 1706, mentre era parroco
don Artucchi, fu benedetta
da monsignor Dentis il 20 novembre 1709 e dedicata ai SS. Solutore,
Avventore e Ottavio, il 5 ottobre 1777.
Il 22 dicembre 1709 vi fu celebrato il primo battesimo; don Artucchi volle
fosse ricordato annotando nel libro dei battesimi: "Gio Tommaso Prato,
nato il 21 e battezzato il 22 dicembre 1709, figlio di Gio Battista e Bartolomea
giugali Prato. Il primo che è stato battezzato nella Chiesa nova".
Fu solennemente consacrata il 5 ottobre 1777 da monsignor Francesco Rorengo
di Rorà, arcivescovo di Torino, venuto in visita alla chiesa il giorno
precedente. Ricordano la consacrazione le 12 croci segnate (una su ogni pilastro
interno). Don Conte, nella sua preziosa relazione Monumenta varia... già
citata, scrive: l'ha solennemente consacrata, a spese dell'UL.mo e Rev.mo
Sig. Abate Ballardi Regio Canonico di questa abazia; assegnata la terza domenica
d'ottobre per l'anniversario di detta consacrazione e avendo sigillato nella
lapide [pietra] sacra dell'altare maggiore le SS. reliquie dei Martiri Plaicido
e Grato.
Nell'elenco delle carte d'archivio che si trovano nell'archivio parrocchiale
di Sangano sono menzionate anche "l'autentica delle reliquie di S. Giuseppe,
del legno della croce, di S. Simone e dei Santi Innocenzo e Faustina".
Il 18 gennaio 1807 si radunò per la prima volta nel presbiterio la
fabbriceria della chiesa, ente che doveva pensare a provvedere alle spese
di mantenimento e di funzionamento degli edifici di culto, istituita nel 1806.
Fabbricieri erano Barone Tobia, Cugno Michele, Garello Lorenzo, Portigliati
Gioanni; presidente provvisorio il teologo Casalegno di Moncucco, a cui subentrò
poi l'amministratore avvocato Carlo del Pozzo.
II 30 novembre Carlo del Pozzo rinunciava al suo incarico "per mancanza
di sussistenza", cioè di fondi adeguati.
A quella data, dal fondo iniziale di L. 150 e 19 soldi, restavano ancora,
detratte le spese fatte, 95 lire e 17 soldi più 11 lire e 5 soldi delle
due compagnie (del SS. Sacramento e del Rosario). Svuotando le cassette delle
elemosine, vi si aggiunsero 2 franchi, 9 soldi e 6 denari. Le spese della
fabbriceria: carta oleata o verera per le finestre (sostituiva i vetri troppo
costosi ancora nel 1808), acquisto di uva per il vino della messa, di vino
bianco, cera di levante, candele, torchie, candelette per la festa della Purificazione,
colori per decorare il Sepolcro del triduo pasquale, per ritoccare uno stendardo
e per i piedestalli e cornici, tre metri di "satino" per le vesti
di Maria e di San Giuseppe per il presepio, un'urna per le reliquie, un trono
dorato e argentato per il SS. Sacramento, un calendario e scope per la sacrestia,
"acquisto il Corpo di S. Vincenzo [sic] per la parrocchia", di puttini
per l'altare, di una libra e mezza di polvere fine e spesa per tiro di mortaretti
da pagare allo spedizioniere della cera per Torino e per la polvere e lo sparo
di un mortaretto nel giorno del Corpus Domini, pagamento alla Curia per la
benedizione del nuovo cimitero e per le patenti della Compagnia del Pio Soccorso,
contributo per la novena dell'Assunta, per le messe cantate e novena del Corpus
Domini e della festa della Compagnia del Rosario.... L'elenco citato delle
carte d'archivio della parrocchia menziona il decreto del Comune di Sangano
di accettare il corpo di S. Vincenzo martire a compatrono del paese.
La chiesa nuova, edificata su istruzioni di Antonio Bertola, si caratterizza
per l'eleganza delle sobrie linee barocche, particolarmente nella facciata
dalla superficie lievemente movimentata da due serie di lesene, unite dal
fregio che ne segue il modellato e dalla accentuata cornice del quadro centrale,
ma soprattutto dallo snello protiro sorretto da agili colonne, e sovrastato
dalla balaustrata. Colonne e balaustrata disegnano ombre ora tenui, ora lunghe
e profonde in movimento sul muro del recinto del giardino parrocchiale e della
sacrestia. La balaustrata però non esisteva inizialmente: fu aggiunta
solo nel 1894.
Stranamente, è appunto il protiro, più che non le profilature
ornamentali e le lesene poco accentuate, a creare il movimento della facciata;
questa, a parte il protiro che la distingue, ha degli esemplari in San Rocco
di Reano, nella chiesa del Gesù a Giaveno, di poco anteriori e nell'ottocentesco
santuario di Forno di Groscavallo.
L'edificio fu disegnato l'anno stesso dell'assedio di Torino e sorse negli
anni in cui nell'alta Valle di Susa, a Chiomonte, Oulx e Cesana, sullo spartiacque
valsusino con la Val Chisone, le truppe sabaude continuavano, contro i Francesi
protetti dalle fortificazioni di Exilles, Salbertrand e Fenestrelle, la guerra
che sarebbe terminata col trattato di Ultrecht del 1713.
La Camera Regia aveva affidato l'incarico di dettare le istruzioni per la
costruzione della chiesa, in termini odierni la direzione dei lavori, cioè
l'attuazione del progetto esecutivo, ad Antonio Bertola, architetto ducale
delle fortificazioni militari, allora impegnato a disegnare il terzo ampliamento
di Torino nella zona occidentale della città, che sull'asse dell'attuale
via Del Carmine si sarebbe sviluppato in direzione della reggia extra-urbana
di Rivoli e verso Stupinigi.
Nel 1694 questi si era già distinto per aver completato la guariniana
cappella della Sindone nel duomo di Torino, con il bellissimo altare destinato
ad accogliere la preziosa reliquia. Nel 1703 aveva lavorato alla erezione
dell'altar maggiore della chiesa torinese di San Filippo Neri di via Maria
Vittoria. Al termine della guerra, avrà l'incarico di eseguire le misurazioni
per la ricostruzione del forte di Exilles; dal 1713 al 1715 dirigerà
i lavori per il castello di Rivoli prima che siano affidati a Juvarrà.
Il barocco sobrio adottato per la chiesa di Sangano non utilizza le nicchie,
la divisione degli spazi esterni tra le lesene con il colore, gli elementi
che marcano troppo le superfici. Usa con moderazione quelli più ordinari
e semplici: lesene, fregio, rosone. Nell'interno ha evidenziato con i cornicioni
molto marcati, lo stacco delle volte. Gli ornati, gli stucchi, le dorature
aggiunti I in seguito hanno caratterizzazioni settecentesche.
Antonio Bertola nel 1700 aveva con sé come praticante Carlo Castelli,
divenuto poi, per suo appoggio, agrimensore, ingegnere, ingegnere estimatore,
autore di opere pregevoli come il coro della Confraternita di Cumiana, Santa
Maria Maggiore di Racconigi e altre chiese dapprima su moduli del maestro
e più tardi dello Juvarra.
Nel 1706-707 faceva ancora pratica col Bettola, che all'epoca era soprattutto
impegnato come architetto militare a Torino durante e dopo l'assedio, e poi
per la ricostruzione di Exilles dopo la caduta del forte nel secondo semestre
del 1708.
La chiesa di Sangano era terminata nel 1709. Difficilmente l'architetto potè
essere assiduamente presente sul luogo.
Fatto il progetto, l'esecuzione era affidata a capimastri esperti, forse anche
operanti presso la corte, aiutati da capimastri del posto, lasciati poi a
portare a termine l'opera. Il progettista ed il direttore dei lavori si presentavano
in seguito per le verifiche e il collaudo.
Confraternite e chiese deliberavano nel tempo aggiunte e ampliamenti non previsti
nel disegno originario, con elementi stilistici e gusti del tempo armonizzati,
non sempre per la verità, con quelli della costruzione che completavano.
Così è avvenuto anche per la parrocchiale di Sangano. Qui le
compagnie e la parrocchia non disponevano di molte risorse finanziarie; si
spiegano così la preferenza per il finto marmo e il ricorso a imprese
artigianali rinomate e specializzate e ad abili artigiani locali, ma la mancanza
di opere di artisti, sia pure non eccellenti ma molto quotati, che operavano
in altre chiese di paesi non lontani.
Anche per questo, a differenza di tanti altri luoghi, Sangano non ha chiese
di confraternite, e crediamo che questo sia anche dovuto al fatto che, dal
1500 in poi, le risorse finanziarie destinate a scopi assistenziali, di sostegno
e incremento religioso, vennero impiegate anche per la costruzione di due
chiese parrocchiali. Seguendo sui documenti dell'archivio parrocchiale (note
di pagamento a fabbriche, imprese e artigiani, convenzioni con artigiani,
relazioni dei parroci) la descrizione degli interventi che nel tempo furono
fatti sull'edificio con aggiunte e ampliamenti (costruzione della sacrestia,
dell'orchestra, del coro, posa della balaustrata del protiro, dei pavimenti,
del selciato esterni...) e con modificazioni e arricchimenti delle membranature
del complesso (dorature, decorazioni, tinteggiatura, restauri, inserimento
di lunette e rosoni, posa dei lustri), si vede che dal 1707 al 1900 si lavorò
sul complesso della chiesa con due tipi di interventi contemporaneamente:
di conservazione-restauro e di completamento della struttura.
Nel 1797 fu rifatta la copertura della chiesa e del campanile; nel 1803, anno
XI della Repubblica francese, si fece la restaurazione dell'orologio per 12
franchi, affidata all'orologiere "cittadino" Michele Portigliato
di Trana, a spese del Comune.
Molti interventi sulla costruzione furono fatti più avanti, nell'Ottocento,
perciò ne parleremo diffusamente in seguito.
Dai conti esattoriali del Comune risulta che la comunità provvedeva
a piccoli lavori nella chiesa.
Nel lontano 1610 pagava a Hostasio Rolando 2 fiorini "per sue fatiche
usate il mese di maggio nel deponer il Crucifisso del Coro della chiesa parrocchiale
[chiesa vecchia]"; nel 1761 invia il fabbro Bartolomeo Avattaneo "per
travagli attorno all'Ancona di S. Giuseppe"; nel 1763 lo manda "ad
accomodare l'altare di S. Giuseppe per il Giovedì Santo" (preparazione
del Sepolcro), e gli fornisce anche, in entrambe le occasioni "chiodi
rampini e broche".
Nel periodi di sede vacante tra la morte dell'abate commendatario e la designazione
del successore, a coprire le spese per arredi e lavori alla chiesa, interviene
il Regio Economato.
Pare di capire che se ne coglie volentieri l'occasione per intraprendere lavori
comportanti oneri finanziari più consistenti.
Nel 1797
Il 9 marzo, vacando questa Abbazia, il Regio Economato pagò fiorini 300 per provvedere camici, rochetti, altre lingerie... nello stesso tempo di vacanza dell'Abbazia si è ricoperta la chiesa grande, il campanile, si è riformata la porta laterale vicino al coro, si è fatta la porta della Casa Parrocchiale e la porta grande dell'aia parrocchiale, il tutto a spese del Regio Economato.
L'area oggi occupata dalla chiesa era terreno dei beni abbaziali;
nel 1684 era suolo pubblico, "vergerò della Comunità".
Era situata tra la strada pubblica per Villarbasse, Trana e Bruino (a ovest
e a sud), la bealera del Castello che delimitava i prati del Signore o del
Castello (a nord), un vicolo tendente ad alcune case della Ruata "da
Val" o Inferiore, ed era chiamata "la Casa Nuova". Fino al
1684 era [ divisa tra due proprietari, Domenico Perrachi e Johanneta Mazola,
e occupata dalla casa con [ portico del Perrachi, la quale copriva la parte
di superficie corrispondente alla odierna piazzetta antistante la chiesa e
metà circa della attuale chiesa parrochiale. La casa con aia di Johannetta
Mazola copriva la parte corrispondente al coro, alla sacrestia, all'andito
per il campanile e la casa parrocchiale.
Il terreno comune tra le due case, segnato sulla descrizione delle proprietà
dell'Inventario delle Scritture abbaziali da noi consultato, come "cortevitio",
sul lato nord della chiesa attuale, ora in parte cappella del Soccorso, divenne
poi cimitero e confinava con la bealera del Castello.
Il sepolcreto della chiesa parrocchiale
Si è accennato in precedenza alla lapide sepolcrale
del prevosto Lodovico Artucchi, nella chiesa parrocchiale, alla sinistra dell'altar
maggiore; ma ne esistono altre: alla destra di chi guarda l'altare (cornu
aepistolae), davanti alla balaustra vi è quella di Gio Artucchi, morto
nel 1738, nipote e successore di don Lodovico. Le salme di queste persone
sono nel sepolcreto sottostante la chiesa, ed erano in corrispondenza delle
loro lapidi.
L'usanza di seppellire nelle chiese era diffusa e vigeva a Sangano da lungo
tempo. Anche i nobili vi potevano avere un sepolcreto, di solito in qualche
cappella laterale. Lo avevano i conti Schiari e ancora, nel 1818 vi fu tumulata
Giuseppa, figlia di Alessandro Francesco Riccardi.
Tutta una serie di annotazioni nel registro parrocchiale dei morti, attesta
che l'usanza di seppellire nella chiesa continuò anche dopo che l'arcivescovo
di Torino, Francesco Rorengo di Rorà dei signori di Luserna, la proibì
nel 1777 e perfino dopo la costruzione del nuovo cimitero, che fu benedetto
il 24 novembre 1811 da don Conte (via San Lorenzo), delegato dall'arcivescovo
Giacinto Della Torre. Questo, del resto, accadde un po' ovunque fino al 1870
quando entrò in vigore la legge sui cimiteri.
Leggendo gli atti di morte dei registri parrocchiali, troviamo annotazioni
come queste: "sepultus in coemeterio veteris ecclesiae" (atti degli
anni 1726-29), "in ecclesìa veteri" (atto di morte di Pietro
Giuseppe Cugnetti di un anno - anno 1727), "in ecclesia nova" (atti
di Giovanni Secondo figlio di Gio Andrea Ambrosini, di anni 3 circa, e di
Anna Maria Giacinta Merlo di 12 giorni - anno 1726), "in ecclesia nova
parrocchiali" (atto del figlio di Giuseppe e Maddalena Franchi, nato
e subito morto dopo aver ricevuto il battesimo; di Anna Margherita De Petris,
di 13 giorni; di Gio Domenico Marone delle Prese, di 8 giorni, figlio di Pietro
e Maria Marone; di Anna Maria Teresa Morra di 8 giorni; di Gio Domenico Franchi,
di 4 giorni - anno 1726), "in coemeterio parrocchiali dicto ecclesia
veteri", "in solito coemeterio veteris ecclesiae".
In tempi più lontani troviamo espressioni come queste: "sepolto
alla chiesa vecchia" (Margherita Cugno e Michele Gavetto - anno 1686;
Bartolomeo Ferero, Bernardino Merlo - anno 1691; Orsola, moglie di Antonio
Picho, sepolta nella chiesa vecchia dai suoi domestici per non esservi né
il parroco né altro sacerdote sopra il luogo a causa dell'armata francese
- anno 1694). Ancora "sepolti alla chiesa vecchia" (Anna Maria Padovana
di 6 mesi e Angela Rossa - anno 1701); "sepolto dentro la chiesa parrocchiale"
(don Giuseppe Giugo, cappellano del presente luogo - anno 1701), "in
comuni coemeterio parvulorum ipsius ecclesiae" cioè nel cimitero
comune dei bambini di questa chiesa (Picco Solutore di 2 mesi e i gemelli
Renaudo Mattia e Maria anno 1795 e Anna Philippa di 11 mesi - anno 1796),
"in coemeterio communi" cioè nel cimitero comune (Gio Domenico
Bruno soprannominato Basso, Gio Ughetto, Giai Levra Giuseppe, Gattino Francesco
- anno 1795 e Spesso Francesca delle Prese - anno 1796; Gallo Michele e Settino
Maria Teresa - anno 1824); "sepultus in coemeterio parochiali" (Giovanni
Audan di Bruino, morto mentre attraversava il torrente Sangone, il 7 giugno
1818, Pavese Maria, morta all'ospedale San Giovanni di Torino e Ignazio Valfredi
"imbecillis", cioè minorato, morto nel 1824).
Infine: "in tumulo parochorum", cioè nella tomba dei parroci
(don Luigi Luchino di Savigliano, ludimagister o maestro di scuola elementare,
nel 1796, e Gio Battista Gastone di Mondovì, francescano dei Minori
conventuali e prevosto di Sangano, il quale "colto da malore mentre cantava
il Vangelo durante la messa solenne, sorretto da due parrocchiani e svestito
dei paramenti, parve sul punto di spirare mentre passava sulla tomba dei parroci;
poi portato a letto e ristabilito da acque medicinali, sembrò riprendersi,
ma dopo un'ora morì dopo aver ricevuto l'estrema unzione dal maestro
elementare don Trincheri, l'8 marzo 1824"; e ancora, sull'atto di Francesco
Riccardi, sepolto nel 1823 nella tomba di questa parrocchiale, separata da
quella dei parroci, presso la chiesa (prope ecclesia)', per ultimo "in
coemeterio ante altare majus ecclesiae" sull'atto di morte di don Borgarello
del 1773.
Troviamo insomma espressioni diverse a indicare luoghi di sepoltura:
nel cimitero parrocchiale,
nel cimitero di questa parrocchia,
nel cimitero della chiesa vecchia,
nella chiesa vecchia,
nella chiesa nova,
nella chiesa nova parrocchiale,
nel cimitero comune dei bambini di questa chiesa,
nel sepolcreto dei parroci,
nel cimitero davanti all'altar maggiore di questa chiesa, nel sepolcreto in
mezzo alla chiesa,
nel sepolcro separato da quello dei parroci di questa chiesa.
Le prime tre, generiche, indicano il cimitero situato nell'area
tra l'antica abbaziale e la nuova parrocchiale, corrispondente all'attuale
giardino parrocchiale; la stessa espressione, in un atto del 1824, indica
evidentemente il nuovo cimitero; l'espressione "chiesa vecchia"
indica quella sorta nell'attuale giardino parrocchiale con canonica dove abitarono
i parroci da don Oddone in poi, e adibita quindi a sola canonica dopo che
fu benedetta la nuova chiesa.
Le ultime quattro sono riferite certamente al sepolcreto situato sotto la
chiesa e l'annotazione "davanti all'altare maggiore", localizza
la collocazione della salma di don Borgarello in corrispondenza della gradinata
di accesso al presbiterio, dove, come verificammo in un sopralluogo termina
il sepolcreto. L'ultima accenna alla sepoltura degli Schiari nel sepolcreto
sottostante chiesa, distinta da quella dei parroci. Qui v'era anche il sito
riservato ai bambini.
Secondo i dati di cui disponiamo, il sepolcreto cominciò a essere usato
parecchi anni dopo» che la chiesa attuale fu aperta al culto. Una annotazione
di don Lodovico Artucchi, parroco dal 1682 al 1725, a proposito della sepoltura
del cappellano don Giuseppe Giugo (1694) dice: "sepolto nella chiesa
parrocchiale", ma non può riferirsi al sepolcreto, bensì
alla chiesa vecchia.
Tutte quelle da lui apposte sul registro dei morti fanno preciso riferimento
a questa: "sepolto alla chiesa vecchia" o "nel cimitero della
chiesa vecchia".
Il primo acceno a una tumulazione nel sepolcreto è del 1° novembre
del 1734 alla registrazione della morte di Giovanni Andrea Ambrosini "sepulto
in ecclesia parochiali a latere primi lapidis sepulchralis ante mensam communionis
in cornu epistolae", ossia davanti al presbiterio, a sinistra di chi
entra in chiesa, di fianco alla prima pietra sepolcrale del pavimento, non
più visibile.
Nel 1736, il 7 novembre, come riferisce don Giuseppe Artucchi, fu tumulato
lo zio, il prevosto don Lodovico, "in eadem ecclesia nova parrocchiali
a latere primi lapidis sepulchralis in cornu evangeli', alla destra. Il cimitero
della vecchia chiesa rimaneva pur sempre il cimitero del paese.
Il 24 aprile 1738 il vicario parrocchiale don Antonio Bocca annota che il
prevosto don Giuseppe Artucchi è stato sepolto "in Capella SS.mi
Rosarii huius parrocchie".
Il 17 ottobre l'economo don Gattino annota: "...Dominus Joannes Antonius
Borgarellus in coemeterio ante altare majus Ecclesiae [davanti all'aitar maggiore]
tumulatus".
Negli anni in cui fu prevosto, il sepolcreto fu aperto tre volte: il 13 dicembre
1750, per la sepoltura di don Carlo Giacomo Soffietti, di 47 anni, torinese
di nascita, ma proveniente da Viù, "inopinato morbo apoplexia
correptus"; il 13 dicembre 1753, "dopo aver ottenuto la facoltà
di rompere il pavimento", per il nobile Pietro Tommaso Coattus (Coatto),
di 63 anni, anch'egli proveniente da Viù, "apoplexia accidenti
correptus, deposto in corrispondenza del pulpito in cornu epistolae";
il 4 dicembre 1768, Gio Battista Ambrosini di 60 anni, "tumulato presso
la mensa della Comunione [balaustra] in cornu epistolae".
Il 30 gennaio 1784, il vicario economo don Michele Micheletti annotava la
sepoltura del prevosto don Carlo Pastore, cuneese, 70 anni, "sepultus
in tumulo ante altare majus".
Il 21 gennaio 1789, ottenuta l'autorizzazione dei superiori ecclesiastici,
il prevosto don Bruno fece aprire il pavimento per la sepoltura del coadiutore
e ludimagister, padre Agostino Gattino, di 60 anni. L'autorizzazione fu richiesta
anche per un altro ludimagister, don Luigi Luchino da Savigliano, di quarantanni,
morto il 26 gennaio 1796, "sepelitus in tumulo parrochorum".
Sfogliando i registri dei morti, troviamo che il 31 marzo 1818 fu "traslata
nel sepolcro di questa chiesa" donna Giuseppina Riccardi, morta a 22
anni, moglie di Giovanni Schiari e figlia di Alessandro Francesco Riccardi
e di Cristina Sacchetti. Ancora: nel 1818, il 15 giugno, la sepoltura del
prevosto don Andrea Conte; il 30 novembre 1819, Gastone Spirito Giacomo, nipote
del prevosto Giovanni Battista, "tumulatus in tumulo in medio Ecclesiae
propre ianuam", in corrispondenza della porta; il 10 marzo 1824, il prevosto
francescano dei Minori conventuali, padre Giovanni Battista Gastone da Mondovì
"in tumulo parochorum sepultus".
Il 15 giugno 1830, l'ultimo laico seppellito in chiesa, Alessandro Francesco
Riccardi; nel 1846, il prevosto don Pietro Giuseppe Giorgio Deortis, ultimo
a usufruire del sepolcro sotto la chiesa.
I registri parrocchiali documentano dunque 15 tumulazioni nel sepolcreto della
chiesa.
II "commune coemeterium parvulorum ipsius ecclesiae", cioè
il cimitero comune dei bambini di questa chiesa, quello "in ecclesia
nova parrocchiali" tante volte citato nei certificati di morte dei bambini
da don Artucchi non è localizzabile con certezza.
Il sepolcreto è accessibile attraverso una apertura nel pavimento della
chiesa, a circa 4 metri dall'ingresso.
Consta di sei ambienti rivestiti in mattoni, coperti da una bassa volta costituita
dal pavimento della chiesa.
Il primo a destra di chi guarda verso l'entrata è vuoto e pare non
essere mai stato usato; i rimanenti, come quello umidi e bui, risultano chiusi
verso il fondo da un divisorio in mattoni che cela ancora le salme. La parte
sgombra dei vani doveva contenere altre sepolture collocate davanti a quelle
murate; sul terreno del fondo di uno di questi vani affiorano incrostazioni
di umidità che sembrano indicare la presenza di una fossa sottostante
coperta in seguito con terra pressata. Qua e là, sulla terra umida
sporgono ossa, qualche teschio, pezzi di assicelle.
L'annotazione sopra riportata riguardante la sepoltura di don Borgarello,
"ante altare maius", permette di localizzare nel vano situato nella
direzione opposta all'ingresso della chiesa, il "tumulus parochorum”
che effettivamente arriva in corrispondenza del presbiterio.
La relazione della visita pastorale di monsignor Roero (22 settembre 1753)
diceva del sepolcreto: "Vidit in pavimento eiusdem ecclesiae duo sepulchra,
quorum alterum dumtaxat est ad usum tumulandis sacerdotibus huius loci, et
satis bene se habent" (nel pavimento due sepolcri, uno dei quali serve
per tumularvi i sacerdoti di questo luogo, e si trovano in molto buon stato).
L'altro era quello degli Ambrosini, mancava ancora quello per i bambini. Le
salme tumulate erano cinque.
La
chiesa parrocchiale
tre anni per edificarla, cento per terminarla
Quattro parroci: Conte, Deortis, Magnetti, Gho, si avvicendarono
durante l'Ottocento alla guida della parrocchia. Furono loro a intraprendere
una interminabile serie di lavori di ampliamento, di completamento e di restauro
conservativo che si protrassero durante tutto il secolo. Solo nel 1900 infatti
la chiesa nuova assunse l'aspetto che conserva tuttora. Le spese non erano
di competenza della fabriceria, che, come vedemmo in precedenza, si occupava
della manutenzione e delle spese ordinarie. Ricadevano invece sul parroco,
sulle compagnie.
Nel 1811, tra le cose abbandonate e ammassate nel deposito della sacrestia,
era stato recuperato il simulacro della Madonna del Soccorso; il 4 agosto
fu benedetto e collocato solennemente nella nicchia vicina alla porta grande
della chiesa. "Ella - annotava don Conte - si è già distinta
in far molte grazie".
La nuova decorosa sistemazione alimenterà la devozione popolare alla
Madonna del Soccorso come dimostra l'erezione della cappella della quale ci
occuperemo in seguito e i numerosi ex voto che meriterebbero di essere rivalutati.
La preziosa statua viene esposta alla venerazione dei fedeli in occasione
della processione del 30 luglio.
Il prevosto Don Conte ci fa pure conoscere di avere lui stesso "ristorato
a pennello" il famoso quadro dei Santi Martiri ossia "l'ancona dell'altar
maggiore che minacciava totale rovina" e che nello stesso anno fu fatto
dallo stuccatore Cattaneo e dal socio Scala il medaglione dell'altar maggiore
a finto marmo e fu dipinto il presbiterio.
Ancora nel 1811, per decreto dell'arcivescovo monsignor Giacinto Della Torre,
furono istituite le Quarantore; a Sangano furono celebrate per la prima volta
nei due ultimi giorni del 1813 e il primo dell'anno nuovo. L'anno 1812 il
prevosto comprò dal sig. D. Ramolone tre giornate e trenta tavole circa
di terreno in regione dell'Apra per fare una dote, ossia un reddito sufficiente
per solennizzarle ogni anno degnamente Nel 1813 il mastro da muri di Piossasco
collocò il divisorio del presbiterio e vennero eseguiti i rivestimenti
in marmo degli altari di San Giuseppe e del Rosario; un gruppo di stuccatori
lavorò con il Cattaneo dell'impresa Catella alla posa dei motivi ornamentali
che diedero all'interno un tocco di ricercatezza settecentesca con le bianche
applicazioni e le cornici di stucco bianco e dorato.
Nel 1814 don Conte portò a termine il restauro dell'intera costruzione,
la tinteggiatura della facciata, della sacrestia, delle due cappelle, con
la bella spesa di 707 franchi e 10 soldi, senza contare quella per la calce,
il gesso, la ferramenta, il materiale edilizio vario, i raggi dorati.
L'aiuto dei fedeli e le elemosine la coprirono per circa 200 franchi d'argento;
il resto fu saldato a novembre con proprio denaro dal prevosto, nella previsione
di ricevere attraverso offerte almeno 200 franchi ancora.
Un'annotazione del 22 luglio 1814 sul Libro della Fabbriceria ricorda un emolumento
di lire 3 e 8 soldi al sig. Colombo per vetri messi alla chiesa, che sostituirono
la carta oleata.
L'anno seguente fu eseguito l'ornato in finto marmo alla statua della Madonna
del Soccorso e la tinteggiatura del battistero .
Il prevosto Deortis nel 1825 fece costruire l'orchestra; una convenzione stipulata
tra le Compagnie del SS. Sacramento e di Maria SS. del Soccorso e Lorenzo
Martoglio nativo di Avigliana e residente a Villarbasse, impegnava quest'ultimo
a dotare la chiesa di un'orchestra "in legno di albera" col parapetto
ornato di cinque cornici secondo il disegno dell'orchestra di San Rocco di
Giaveno, e "un confessionale di noce da coprire l'accesso alla medesima,
con una guardarobetta sopra ad esso; il tutto, compreso anche l'ampliamento
della bussola della porta, per lire 425".
L'avvocato Riccardi, proprietario del castello, concorse con un doppio Luigi
d'oro del valore di lire 48 e soldi 10. Fino al 1827 la casa parrocchiale
non disponeva di acqua per uso domestico e la si doveva chiedere ai privati.
Don De Ortis trovò alcune sorgenti, una sotto la stalla e un'altra
sotto la cantina, che alimentarono poi il pozzo costruito in quell'anno e
fornirono acqua sempre sufficiente, anche durante la siccità del 1828,
quando la popolazione fu costretta a rifornirsi di acqua alla fontana del
castello.
Con le offerte della popolazione, nel 1831 iniziò i lavori per il nuovo
coro, che sarebbero stati ultimati solo nel 1864, con la posa del pavimento,
degli schienali a scanni e con la decorazione della volta, coperti col ricavato
di lire 1310 dalla vendita di un taglio di bosco fatto su un terreno affittato
dal Comune.
L'anno seguente la chiesa ebbe anche l'organo a 547 canne, pedaliera con 13
pedali, 3 mantici, 50 tasti, commissionato a Michelangelo Collino di S. Pietro
Vallemina, costruttore anche dell'organo della Confraternita dei Santi Rocco
e Sebastiano di Cumiana (1818); sempre con convenzione stipulata dal prevosto
e dai priori delle Compagnie il 31 ottobre 1825.
L'organo venne pagato 1640 lire nuove di Piemonte e la cassa dell'organo 200
lire nuove.
Le Compagnie acquistarono damasco e taffettà per la tappezzeria a lire
3293 e 90 centesimi, pagando con le offerte dei parrocchiani i quali devolvevano
a questo scopo il guadagno del loro lavoro nei giorni festivi nelle imprese
deliberate dalla comunità a favore della chiesa, soprattutto in quella
per la posa del selciato dal paese a San Lorenzo.
L'obelisco in pietra sormontato da una croce, simile a quello che sta davanti
alla collegiata di San Lorenzo di Giaveno, fu collocato sulla piazza antistante
la chiesa nel 1840, con metà dei paracarri, a spese del prevosto De
Ortis (100 franchi); gli altri paracarri (costo di 50 franchi) furono posti
nel 1849 a spese della comunità.
A spese delle Compagnie, nel 1844, venne ampliata la sacrestia verso levante
e casa Ramassotto, e nei due anni seguenti furono piazzati i lustri della
chiesa.
La chiesa era illuminata a candele: i lustri o lampadari (dal latino lampas,
fiaccola) reggevano una corona di candele; l'apporto di... alta precisione
del sacrestano era indispensabile: con una lunga canna munita all'estremità
di uno stoppino acceso, doveva mirare in alto con estrema precisione allo
stoppino delle candele e, al termine delle funzioni, con la stessa canna,
munita pure di un cono di latta, spegnerle ad una ad una e riportare la chiesa
nella semioscurità che favoriva il colloquio individuale con Dio. Il
lettore capirà, da quanto abbiamo detto, il grande con¬sumo di
cera e il significato del contributo del Comune per la cera dell'altare, il
senso non soltanto liturgico dei 14 candelieri dell'altar maggiore e degli
8 degli altari laterali.
Nel 1855-56 vennero stuccate la cappella del Soccorso e ornato e dipinto l'altare
di San Giuseppe, con l'aggiunta, nella prima, della predella in marmo, e il
restauro del quadro di San Giuseppe moribondo che è "di buona
pennella", come annota il teologo Magnetti, per l'altare del santo. Il
quadro, ora collocato nella cappella del Soccorso sulla parete alla destra
di chi entra e, nuovamente restaurato nel 1897, è stato sostituito
con una tavola di uguali dimensioni con rilievo raffigurante il battesimo
di Gesù.
L'8 maggio 1870 fu stipulata dai priori delle Compagnie e dal prevosto teologo
Magnetti una convenzione col pittore di origine giavenese Giovanni Brusa,
residente a Rivalta, per la pittura e decorazione della chiesa. Si conveniva:
volte del coro, lunelle, fasce e ogni parte superiore al cornicione dovevano
essere adornate; finestre finte colorite con finto velo; cornicione in finto
marmo, fregio sotto il cornicione in verde brillante; lesene in finto marmosoglio;
capitelli in bianco; gli intercolunni accanto all'altar maggiore da un lato
e dall'altro con quadro e figura, gli altri con ornato. Le due meravigliose
finte finestre con finta tenda sopra il presbiterio, ora riportate al loro
splendore, meriterebbero maggior attenzione. Quanti le hanno notate?
Per i due altari laterali si conveniva di fare un fondo in colore e stucchi
in bianco.
Cornicioni, lesene, capitelli, intercolunni del coro avrebbero dovuto essere
identici a quelli della chiesa; al di sopra del quadro grande del coro dovevano
essere raffigurati palme, corone e altri ornati emblematici, con una riquadratura
tutto intorno; attorno alle nicchie una finta cornice. Dovevano essere rinfrescate
le due mensole dell'altare, il cassone dell'organo, gli ornali dell'orchestra.
Qualunque parte della chiesa, meno la cappelletta del Soccorso, doveva essere
tinteggiata e riquadrata. Pulpito, confessionali, porte della sacrestia, sedili
e schienali del coro, tutto in noce scuro.
Come si vede, la convenzione conteneva una minuziosa elencazione degli elementi
e degli interventi; non stabiliva il colore dominante sul quale dovevano spiccare
il verde brillante dei fregi e il bianco dei capitelli e degli stucchi dell'altare,
né quello degli ornati, lasciando all'artista il compito di trovare
una soluzione che rendesse lo stacco netto degli elementi lignei in noce scuro.
Il costo fu convenuto in lire 1330.
L'atto era sottoscritto dal teologo Magnetti, da Barone Michele priore della
Compagnia del Corpus Domini, da Giovanni Gino e Valfredo Giuseppe, rispettivamente
priore e sottopriore della Compagnia del Rosario.
Don Luigi Ghò, nel 1894 contattò l'impresa del decoratore Pietro
Carré di Torino che mandò il pittore Egidio Badoni, per il rinnovo
dei dipinti. La stessa ditta eseguì per 225 lire il rinnovo della facciata,
il restauro del frontone e delle sue figure, la doratura della cornice, la
collocazione del rosone del costo di lire 4,50.
Lo stesso anno la ditta Fratelli Ronchino di Torino fece la pavimentazione
del presbiterio in pianelle di cemento (lire 50), la copertura dell'atrio
con pavimento in cemento per lire 45,10 e la posa della balaustrata che lo
cinge, lunga mt 11,45, con la spesa di lire 206,10.
Nel 1900, la ditta Carré provvide alla doratura del cancello dell'altare
e del tabernacolo, alla riparazione e decorazione a finto marmo e doratura
dell'altare della Madonna del Rosario.
Con questa serie di interventi la "chiesa nuova" e la piazza antistante
assunsero l'aspetto attuale. Così don Ghò portò a compimento
l'opera dei predecessori Artucchi, De Ortis e Magnetti, costruttori di questa
parrocchiale insieme ai membri delle compagnie.
Nel 1904, con la collaborazione dell'organista e maestro di musica Claudio
Bono, don Ghò pensò alla riparazione e ricostruzione dell'organo,
affidata a tecnici diversi, con la spesa di lire 987, e nel 1911, alla Fabbrica
pontificia e reale di organi di Carlo Vegezzi Bossi, già sull'orlo
del fallimento.
Nel 1910 venne stilato un regolamento per la concessione del diritto di avere
proprie sedie in chiesa: le sedie non potevano essere più di venti
e per la loro concessione si dovevano pagare 5 lire all'atto della richiesta
e 5 lire all'anno; la titolarità della sedia non era trasmissibile
e quindi cessava con la morte del titolare. Ne restano ancora dieci.
La storia della edificazione della chiesa parrocchiale di Sangano termina
così nell'anno 1900.
I lavori succedutisi fino a questi ultimi anni non hanno avuto che lo scopo
di conservare la costruzione mantenendone intatte le qualità stilistiche,
pur adattandola alle necessità dei tempi (impianto di riscaldamento
e di diffusione, restauro dell'organo) e alle norme liturgiche dettate dal
Vaticano II (posa dell'ambone e del nuovo altare rivolto al popolo...). Il
pavimento del presbiterio è stato rifatto a mosaico; rimane in tutta
la sua bellezza quello originale del resto dell'edificio in bargioline (piastrelle
in pietra di Barge) gialle e grigie tagliate a martello. Nel 1981 don Vicino
affidò ai pittori Sergio e Francesco Lussiana di Giaveno i lavori di
restauro conservativo della decorazione della chiesa, che furono eseguiti
sotto la direzione dell'architetto Fasano designato dalla Curia torinese,
e l'autorizzazione della Sovrintendenza alle Belle Arti. I due pittori giavenesi,
noti nella nostra Archidiocesi per numerosi restauri eseguiti ancora recentemente
in molte chiese (San Martino di Bruino, San Giovanni di Avigliana, SS. Pietro
e Andrea di Rivalta, SS. Trinità di Balme, San Pietro in Vincoli di
Lanzo, parrocchiali di Reviglia-sco, Piobesi, Trofarello...) portarono a compimento
l'opera in 4 mesi: rinfresco di stipiti, riquadrature delle pareti, e trabeazioni,
dei medaglioni e dei 5 affreschi della volta, ripulitura con gomma-pane del
parapetto dell'orchestra e rifacimento dei fondi dei cinque riquadri, pulitura
con bianco zinco e bianco calce degli stucchi delle cappelle laterali.
Oggi si intravedono confusamente i tre freschi della facciata, non più
restaurabili, che nel 1894 erano stati rinnovati dall'impresa Carré
di Torino; il mosaico collocato di recente nella cornice centrale può
essere il primo passo per ridare alla facciata la vivacità e lo splendore
che aveva anticamente; l'oro dei mosaici sarebbe valorizzato dalla doratura
della cornice come era stata rinnovata dalla ditta Carré.
All'interno della chiesa, le lesene, gli stucchi, i rilievi si legano alle
superfici nelle quali domina il bianco, animandole, come era stato fatto nel
1813, anziché staccarsi da un colore di fondo e delimitando gli spazi,
come invece era stabilito nella convenzione fatta da don Magnetti e dai priori
delle compagnie con il pittore Brusa.
La bella cappella del Soccorso estende lo spazio inteno oltre l'area della
chiesa ad aula. La cappella del Soccorso non compare ancora sulla mappa di
Sangano del 1812; fu eretta quando era prevosto don Andrea Conte (parroco
dal 1807 al 1818), come attesta don Rosani che lo sostituì per qualche
giorno nel giugno 1818 prima che morisse e poi resse la parrocchia come vicario
economo ad interim fino all'arrivo del vero economo e poi parroco designato,
don Gastone.
Don Rosani infatti, registrando il decesso (13 giugno 1818) e la sepoltura
(15 giugno) di don Conte, scrive di lui che fu "totaliter addictus in
exornanda hac ecclesia Sangani, nec non in ex-truenda capella S. Marie de
Succursu" (impegnato totalmente nell'adornare questa chiesa di Sangano
e anche nel costruire la cappella del Soccorso).
Un foglio non firmato, ma in cui è riconoscibile la scrittura di don
Gastone, elenca tra i beni di cui è dotato l'altare di questa cappella:
due corone d'argento, una sul capo della Madonna e una sul capo del Bambino
Nel 1817 con patenti della Curia fu istituita la Compagnia del Pio Soccorso.
Don Magnetti abbellì la cappella dotandola di un baldacchinetto d'oro
zecchino (1849), della predella in marmo per l'altare (1855) e fece stuccare
l'altare con la spesa di lire 64,50.
Le spese per la cappella del Soccorso furono sempre a carico della chiesa.
La chiesa attuale è abbastanza diversa da quella del progetto originario.
Per rendersene conto è sufficiente leggere la descrizione che ne faceva
la relazione della visita pastorale di monsignor Roero (1753) e dare un'occhiata
all'esterno della chiesa passando in via Gino. "Il corpo della chiesa
- è scritto sulla relazione - è a una sola navata a volta e
imbiancata. Il pulpito (sugge-stum prò concionibus), di legno, è
attaccato alla parete presso l'altare della B.M.V. del Rosario. Il coro è
a forma quadrata oblunga. Dal coro si accede in sacrestia che è in
cornu epistolae".
Il coro terminava all'attuale parete divisoria che è dietro l'altare;
questo era ad un metro e mezzo dalla balaustra attuale collocata nel 1813.
L'interno della chiesa era tutto bianco, senza decorazioni. Costruendo il
nuovo coro e volendo ampliare la sacrestia (1844), si dovette far avanzare
ancora l'avancorpo esterno della cappella del Rosario. La vecchia sacrestia
era stata ricavata tra un primo prolungamento di questo avancorpo (che rovinava
la graziosa sporgenza della cappella del Rosario) e il muro portante della
chiesa che si saldava al primitivo coro. Nel 1844 l'avancorpo venne portato
fino al muro perimetrale del nuovo coro e si ottenne un altro spazio per la
sacrestia. Dalla parte contrapposta dell'edificio, portando la sporgenza della
cappella di S. Giuseppe fino alla chiesetta del Soccorso, ne risultò
il locale con l'altarino ora da questa diviso da una inferriata. I lavori
per questo adattamento furono possibili perché nel 1811 il cimitero
che era su quel lato "undique circumvectum muro cum duplici ostio ligneo"
(circondato da ogni parte da un muro con due porte di legno), come dice la
relazione di monsignor Roero, ormai non c'era più ed esisteva quello
di S. Lorenzo. Così, se non sbagliamo, la parrocchiale di Sangano fu
sottoposta a una serie di discutibili modifiche esterne a causa di una sacrestia
non prevista nel progetto, oppure, più probabilmente, destinata a servire
anche da coro.
Dalla documentazione di archivio isoliamo alcuni dati particolarmente significativi
riguardanti la chiesa:
1 - l'inizio dei lavori: anno 1707, nel periodo di 23 anni in cui l'abbazia
di San Solutore rimase senza abati commendatari, dalla morte di Onorato De
Gubernatis, 9° commendatario, alla reggenza di Carlo Francesco Bogio.
2 - il committente e i mezzi finanziari impiegati: li desumiamo dalle seguenti
tre annotazioni di don Artucchi: "l'anno 1709, alli venti di novembre
festa titolare, fu benedetta la nuova chiesa parrocchiale (ora officiata)
dall'ill.mo molto rev. Don Dentis canonico della cattedrale di Torino. Dessa
fu eretta dalla Camera Regia coi redditi dell'abbazia vacante". "L'anno
1709 et alli venti del mese di novembre giorno et festa dei SS. Solutore,
Adventore et Ottavio titolari di Sangano, si è benedetta la chiesa
parrocchiale del detto luogho, fatta fare de rediti della Abazia dalla Camera
Regia come pure quella amobiliata delle supeletili necessarie a spese come
sopra..."
"L'anno 1777 alli 4 settembre l'ecc.me e rev.mo Sig. Abbate Mons. Francesco
Lucerna Rorengo di Rorà, arcivescovo di Torino, ha visitato questa
parrocchia e alli cinque dello stesso mese l'ha solennemente consacrata a
spese dell'Ill.mo e rev.mo Sig. abbate Bailardi, regio economo di questa abbazia...".
"1797 - 9 marzo vacando questa Abbazia il Regio Economato pagò
ff. [fiorini] 300 a provvedere camici, rochetti, altre lingerie... nello stesso
tempo di vacanza dell'Abbazia si è ricoperta la chiesa grande, il campanile,
si è riformata la porta laterale vicino al coro, si è fatta
la porta della Casa Parrocchiale e la porta grande dell'aia parrocchiale il
tutto a spese del R° Economato".
La chiesa, dunque, fu fatta erigere e fu dotata di suppellettili dalla Camera
Regia, coi redditi dell'abbazia vacante; anche le spese per la consacrazione
furono sostenute dal Regio economo dell'abbazia.
3 - Apporto delle confraternite e dei fedeli nel completamento e ampliamento
(orchestra, organo, ampliamento sacrestia) e nella decorazione interna ed
esterna.
Contributo di iniziativa e di finanziamento integrato da quello dei fedeli
e dei possessori dei beni abbaziali.
4 - Concorso della comunità civile: per le campane, per la manutenzione
dell'orologio, sistemazione della piazza, spese per il culto e l'illuminazione
della chiesa, riti di particolare rilevanza anche per la popolazione, come
rogazioni, riti di propiziazione contro le intemperie e le calamità
e anche piccoli lavori occasionali anche all'interno dell'edificio.
C'era identificazione piena tra comunità religiosa e civile che era
non solo caratteristica della realtà di Sangano, ma dei nostri paesi
fino a fine Ottocento, perciò la comunità, oggi diremmo la municipalità,
si assumeva oneri e rappresentanze anche nella vita religiosa.
Le cappelle nella campagna di Sangano sorgevano su terreno della comunità,
ed essa provvedeva alla loro manutenzione e conservazione. In caso di pestilenza,
siccità, straripamenti del torrente, la comunità, anche in paesi
a noi vicini come Cumiana, Giaveno, Piossasco, si faceva promotrice di celebrazioni
propiziatrici, novene e messe per impetrare la pioggia, processioni votive
la cui rievocazione ancora in talune circostanze viene mantenuta come atto
di fedeltà nei confronti delle disposizioni dei padri; basti pensare
alle processioni alla Madonna dei Laghi che si effettuano ogni anno da Giaveno,
Cumiana, Coazze... per ricordare il voto fatto durante la peste del 1628-30.
L'offerta della cera per la chiesa, e dell'olio per la lampada del SS. Sacramento
da parte del Comune era generalizzata. Particolarmente sentite nelle comunità
rurali erano le processioni delle Rogazioni, dette anche Litanie maggiori
nel giorno di San Marco (25 aprile) e Litanie minori il lunedì, martedì
e mercoledì prima della festa dell'Ascensione.
Con questa si invocava la benedizione del Signore sulla campagna dalla quale
la gente traeva il sostentamento; a Sangano, come altrove, sostavano nelle
cappelle disseminate nella campagna, ogni giorno in una cappella diversa,
seguendo tre itinerari verso San Lorenzo, San Sebastiano e San Rocco, inoltrandosi
per i sentieri che portavano nei prati. Erano altrettanto sentite le celebrazioni
delle Quarantore, che a Sangano, come si è detto, erano molto solenni,
e la processione del Corpus Domini al termine della "messa grande",
proclamazione unanime della fede e dell'unione della Comunità attorno
al SS. Sacramento. In questa occasione era concesso ai sindaci e ai consiglieri
l'onore di reggere il baldacchino e di avere il banco d'onore in chiesa.
La tradizione dello scoppio dei mortaretti durante la processione, è
riscontrata anche in al paesi. Non intendeva affatto essere occasione per
fare un po' di chiasso e non era indice di un distorta manifestazione della
religiosità, come pare essere quella che accompagna le processioni
dei santi patroni in molti centri dell'Italia Meridionale, bensì ingenuo
e festoso omaggio della gente semplice al passaggio del Signore nelle contrade
del paese.
Urbano IV (1261-64) aveva istituito la festa del Corpus Domini invitando i
fedeli a celebrare: con canti e altre dimostrazioni di allegria la festa del
Signore: "... canti la Fede, danzi la Speranza, salti di gioia la Carità"
diceva la bolla pontificia.
Qualche volta le tre virtù teologali... eccedevano un tantino.
Negli anni dal 1331 al 1377 la popolazione di Sangano è
sulle 250 unità. Dagli atti riguardanti i processi dell'inquisitore
de Castellario, svoltisi a Giaveno nel 1335 e custoditi nell'Archivio Generale
dell'Ordine Domenicano di Roma, sappiamo che in quell'anno c'era a Sangano
un gruppo di 18 seguaci di Pietro Valdo da Lione, che altre piccole comunità
valdesi come questa erano a Trana (27 persone), a Coazze (43 persone), a Bruino,
Giaveno e sue frazioni Sala, Selvaggio, Villanova La tradizione valdese non
si è spenta a Sangano, ma ci sono ancora oggi cristiani praticanti
di questa religione.
Anche a quel tempo queste comunità non erano isolate ma comunicavano
tra loro; avevano in comune un nucleo di credenze in contrasto con la tradizione
cristiana, raccolte da movimenti religiosi diversi, perfezionatesi in seguito
e in parte poi abbandonate, che non possiamo qui esaminare.
Le comunità inizialmente non si consideravano eretiche rispetto alla
Chiesa cattolica, ma chiesa critica, di opposizione e di stimolo. Si incontravano
di notte in qualche casa, talvolta erano raggiunte da un ministro itinerante
detto magister, seygnor, doctor, che presiedeva le riunioni di catechesi e
di culto.
Alle riunioni del gruppo di Sangano era presente addirittura l'eremita che
dimorava nella chiesa di Santa Maria di Bruino.
In Valsangone in quegli anni circolava Martino Pastre, ritenuto il più
autorevole magister itinerante tra quelli del Piemonte occidentale.
Nel 1387 venne a Sangano un inquisitore, il domenicano Antonio de Septo da
Savigliano; sostò anche a Trana e infine a Giaveno, sede di uno dei
due tribunali della diocesi, con quello di Drosso. Raggiungeva i paesi dove
era segnalata la presenza di "eretici", per raccogliere dai parroci,
e da chi ne era a conoscenza, informazioni sulle persone sospette di eresia.
Il processo sarebbe avvenuto in seguito nel tribunale dell'inquisizione.
A Sangano riuscì a identificarne due, che vennero quindi convocate
in tribunale; così Antonio de Septo, il 16 agosto 1387, chiese a Tommaso
Pellicerio, vicario del vescovo di Torino, di esser presente all'interrogatorio
di "due Valdenses di Sangano", come richiedeva la prassi.
Purtroppo, per ora, non conosciamo l'epilogo di questa storia. Di valdesi
a Sangano si parla ancora, ma oltre un secolo dopo, nella relazione scritta
sulla visita pastorale di monsignor Broglia del 15 settembre 1595.
Vi si dice che il paese ha 160 anime; tutti a Sangano sono "comunicati",
cioè hanno soddisfatto il precetto pasquale, tranne uno, che il vescovo
vuole sia convocato: "et hunc evocare mandavit..."
Più oltre vi si legge: "Domus canonicalis male se habet et fuit
ab hereticis succensa, cum iactura mobilium dicti curati, et illam reparare
mandavit" (La canonica è in cattive condizioni e fu incendiata
dagli eretici, con danneggiamento dei mobili del curato, e ordinò che
venga riparata).
Se dunque, quell'anno, di "eretici" non c'è menzione (tutti
hanno fatto pasqua), non molto tempo prima questi però hanno... condannato
al rogo la casa parrocchiale con tutti i suoi arredi.
I termini "eretico" e "valdese" in quegli anni praticamente
erano sinonimi e stavano a indicare i valdesi ormai entrati a far parte della
Chiesa riformata di influenza calvinista, dopo il Sinodo di Cianforan del
1532.
Proprio nel 1592-95 è in atto l'invasione delle valli di Susa e del
Chisone da parte del capo dei calvinisti, il conte de Lesdiguières,
che nel 1594 assedia Bricherasio e nel 1595 devasta e incendia le vicine Cumiana
e Piossasco.
Dieci anni prima della visita di monsignor Broglia, nel 1584, si era svolta
quella dell'arciprete della chiesa metropolitana di Torino, monsignor Loseo,
incaricato dal visitatore monsignor Peruzzi.
Questi si era riservato di andare nelle chiese di Torino, nei centri maggiori
delle diocesi del Piemonte e quelli dove c'era presenza di valdesi, lasciando
al Loseo gli altri.
A Sangano aveva riscontrato che gli ammessi alla comunione (parrocchiani oltre
i 12 anni), erano 130, tutti comunicati; lamentava però che non veniva
mai insegnata la dottrina cristiana e ordinava al curato di provvedervi tutte
le feste.
L'ordine fu tranquillamente ignorato dal curato don Oddono, tanto è
vero che monsignor Broglia, nel 1595, ripeteva la stessa lamentela e rinnovava
lo stesso ordine.
Per questo motivo abbiamo qualche difficoltà a considerare l'incendio
alla canonica come reazione degli eretici alla confutazione delle loro idee
religiose da parte del parroco e alla sua ferma opposizione al diffondersi
dell'eresia tra il popolo.
Non abbiamo argomenti per spiegarlo e non ne abbiamo per sostenere o negare
la consistenza, la durata e la fine di questo movimento religioso a Sangano.
E ce ne asteniamo.
"Ad arrampicarsi sugli specchi - ha detto … - c'è sempre
il rischio di scivolare".
Dal libro:
Storia di Sangano e della sua gente
Giuseppe Massa - Maria Teresa Pasquero Andruetto
Lazzaretti Editore, 1996.
Dizionario geografico Goffredo Casalis
Sangano
(Sanganum), comune, nel mandamento, di Orbassano, prov. dioc. e div. di Torino.
Dipende dal senato di Piemonte intend. gen. prefett. ipot. di Torino, insin.
di Rivoli, posta di Orbassano.
Sta presso il Sangone a ponente-libeccio da Torino, da cui è distante
otto miglia.
Gli è annessa una borgata cui si dà il nome di Prese.
A levante dell'abitato sorgeva un castello, che apparteneva all’Abbazia,
di cui parleremo qui appresso. Una parte di essa venne riattata ad uso di
abitazione dal sig. avvocato Riccardi.
La strada per Bruino ed Orbassano vi corre verso l'oriente; e verso maestrale
va quella per a Trana, ove passa la strada provinciale da Pinerolo a Susa.
Sul Sangone non sovrasta verun ponte.
Il villaggio trovasi in pianura: nel lato di libeccio vi sorge una montagna
imboschita di castagni, roveri e faggi.
Il territorio è assai produttivo di cercali e di altri vegetabili:
i terrazzani mantengono bestie bovine nel novero richiesto dai bisogni dell'agricoltura.
La chiesa parrocchiale è sotto il titolo di Maria Vergine assunta in
cielo. Il cimiterio giace
a libeccio dell'abitato in distanza di circa 200 metri.
A maestrale del Villaggio vedesi
un palazzo di bell'aspetto con giardino avanti, il quale
è di proprietà del signor Depaoli.
A vantaggio dei fanciulli vi esiste una pubblica
scuola in cui s'insegnano i principii di lettura, scrittura
ed aritmetica.
Gli abitanti sono di complessione assai robusta, e di lodevole indole.
Cenni storici. Anticamente questo luogo era mollo più importante di
quel che lo sia di presente: viene indicato siccome Corte in un solenne atto,
cioè nella carta di fondazione dell'abbazia
de' Ss. Solutore, Avventore ed Ottavio, fatta da Gezone
vescovo di Torino verso il fine del secolo X: ivi si legge Curte quae dicitur
Sanganum, vallis Novelasca, palatiolum, Susinascum, et regianum prope vel
juxta eamidem Curtem jacentes. Il vescovo Landolfo, successor di Gezone, nella
sua carta di conferma dell’anno 1011 ripete lo stesso, aggiungendovi
le chiese di altri circonvicini villaggi dipendenti allora dalla pieve di
Sangano; la qual terra vi si fa come centro e capo di quelli, cioè
de Trana, de Bruino, de Plociasca, de Rheano, de Prelis , de valle; de Novelasca
et omnem decimam totius Curtis de Trana et de Bruino, et de valle de Novelasca,
et de Prelis, et de Bassa, et de Cursano.
Alcuni di questi villaggi sono distrutti, e di alcuni altri che tuttora esistono,
si alterò il nome, come de Prelis, oggi le Prese,
Bassa villar di Basse, non diverso da Bacianum o Bassianum dell'Ottoniano
diploma del 1001. La terra di Sangano giace appunto quasi nel centro alla
destra del torrente, da cui sembra aver tolto il nome, quantunque l'uno già
si denomini Sango e Sangone, e l'altra Sanganum nel X secolo, come apparisce
dalle sopraccennate carte, e da una del marchese Adalberto dell'anno 929.
Il senato di Torino con decreto del dì 16 settembre 1730 approvava
i bandi campestri
del territorio di Sangano, i quali furono pubblicali colle stampe.
Da più di un secolo chiamasi di Sangano l'antica abbazia di cui abbiamo
fatto cenno qui sopra: ed è perciò che crediamo essere opportuno
questo luogo per riferirne le più rilevanti particolarità.
S. Massimo vescovo di Torino ci dà a conoscere nelle sue omelie come
già sul principio del secolo V dell'era volgare i torinesi avessero
eretto un oratorio ad onore dei Ss. martiri Solutore, Avventore ed Ottavio;
il quale oratorio ampliato dappoi, ebbe il nome di Basilica, e con questo
nome appunto chiamavala quel gran vescovo. In progresso di tempo andava rovinando
questa basilica, e veniva ristaurata dalla pietà dei fedeli e dei sacerdoti;
ma finalmente nel secolo X giaceva pressoché intieramente distrutta;
Loca sancta martirum, Solutori, Adventoris et Octavii pene usque ad solum
destructa videmus. Così appunto dichiarava Gezone eletto all’piscopato
di Torino, circa il 1000.
Vivamente commosso questo piissimo vescovo di vedere smarrirsi le vetuste
e venerande memorie di que'santi martiri, i quali tanto avevano illustrato
la religione e la patria divisò con ottimo consiglio di rialzare dalle
fondamenta quel tempio, ed anzi di farvi costrurre accanto un monastero che
fosse abitato da ferventi solitarii, i quali onorassero Dio ed i santi suoi
con un culto regolare e continuo. Mise egli pertanto mano all'opera circa
il 1004, vi fece edificare molte celle monastiche, divise in due ordini, coll'intenzione
che le une servissero ai cenobiti, cioè a quelli che volevano insieme
vivere osservanza comune, e le altre agli eremiti entro la stessa clausura,
i quali, separati dal consorzio, attendevano, ciascuno da solo nella propria
cameretta, alla loro santificazione; ma volle che tanto i primi, quanto i
secondi venissero istruiti e governati dall'istesso, ed unico archimandrita.
Chiamò Gezone questi romiti dal monte Caprio o Caprasio in faccia a
S. Michele della Chiusa, ove seguitando la norma e gli esempi di S. Giovanni
( Vedi S. Michele della Chiusa), che sulla sommità di quella montagna
per alcun tempo rimase, vivevano da perfetti solitari in appartate celle;
e venuti diffatto a Torino, cominciarono ad abitare il monastero, che ai Ss.
Martiri era stato eretto e dedicato. Tale e l'origine del monastero dei Ss.
Solutore, Avventore ed Ottavio in Torino, forse l'unico in Piemonte negli
antichi tempi, che ad esempio di quelli, cui Sant’Antonio abate fondava
in Egitto, riunisse i vantaggi della vita cenobitica, e della vita romitica.
Diciamo di passo che il Baldessani, ed altri dopo di lui, dissero per errore,"
che Gezone fu solo ristauratore, e non il primo fondatore di quell'antico
monastero", il quale si trovava precisamente nel sito, ove venne poi
costrutta la cittadella di Torino.
Cospicue furono le donazioni fatte a questo monastero dal vescovo Gezone:
che gli donò tutte le terre di sua spettanza colà vicine, con
la sola riserva del castello Nucuriase, e tutte le terre, i servi e le decime
altre volte spettanti alla chiesa e al monastero di s. Martiniano.
A queste già larghe donazioni ne aggiungeva poi altre molte, le quali
ci vengono rammentate da un atto originale che abbiano per le mani, e che
quantunque non ci presenti la data, nondimeno sappiamo essere anteriore all'anno
1011, in cui gli succedette Landolfo sulla sede vescovile di Torino.
Questi altri beni donati da Gezone al monastero da lui fondato sono l'intiera
corte di Sangano con tutte le sue terre ed acque, o dipendenze ovunque esse
si ritrovassero: di più la chiesa battesimale con tutti i sacri luoghi
ivi esistenti, comprese tutte le decime, e la valle Novellasca, Palazzolo,
Susinasco e Regiano; inoltre trecento cinquanta giornate di terre arative
in Carignano con le loro decime, e tutte le decime di Stodegarda, ora Stuerda,
sul confine di Poirino; e le chiese erette in Carpice coi cimiterii, e la
metà delle decime di questa corte; nè a ciò stando contento,
gli diede ancora tutte le terre a lui pervenute in cambio in Bulgaro (o borgo
Cornalesio) da Giselberto di Bagnolo, oltre ad un molino e ad altre possessioni
nei luoghi chiamati Moline e Dora, ed altri beni in Pinalo, in Pinariano,
in Saluriano, in Tidutiano, non che altri beni posti tra Canana e Teciano,
in Pedenas, in Testona, in valle Paesana, in Piobesi, Ovorio e Rivoli.
Questa donazione era confermata nel 1011 dal successore Landolfo: se non che
in quest'atto di conferma che abbiamo pure originale ed assai bene conservato,
sta chiaramente scritto che le giornate in Carignano, cui donò Gezone
al monastero, sono 255, laddove nell'atto di esso Gezone, e in altre posteriori
carte, ne vengono sempre indicate trecento cinquanta; e sembra che coll'aggiunta
di un. V al fine di 250 siasi voluto temperare quella diversità. Qualunque
sia stata la causa di siffatto divario, noi abbiamo creduto di doverla notare
per porgere un esempio delle difficoltà che talvolta ci si vengono
a frapporre nell'esame delle antiche scritture.
Romano fu il primo abate di questo monastero: a lui succedette Gozzelino,
religioso di perfettissima vita, e di tanto merito, che fu da Dio illustrato
in vita e dopo morte con parecchi miracoli; ci cessò di vivere nel
1061. Un altro monaco per nome Anastasio era ai tempi di Gozzelino in riputazione
di santo; e l'uno e l'altro introdussero fra quei religiosi la più
regolare osservanza, onde dilatassi da per tutto la fama gloriosa di questo
monastero; il perchè personaggi di alto affare gareggiavano a beneficarlo.
Già nel 1031 il marchese Olderico Manfredi colla consorte Berta gli
aggiungeva altri beni in prossimità di quelli già da esso posseduti,
e rinunziava in suo favore ai diritti di albergaria, e ad altri che a lui
potessero competere sulle terre del monastero in Giaveno. Sangano, Carignano,
Sauciaso, o Salsasio Tegerone, Bulgaro, Settimo, Pianezza, Col S. Giovanni
ed altrove, dovunque si trovassero da lui dipendenti.
Una metà delle due corti di Calpice e Covacia gli veniva pure donata
dalla medesima Berta e da Adalberto, ed esso in prima ne aveva ricevuto l'investitura
dell'altra metà dalla contessa Adelaide alli 4 luglio 1079; e quindi
nel 1088 gli fu conferito il pieno possedimento sulla restante metà
di Calpice.
Nel 1104 il vescovo di Torino Cuniberto confermava tutte le donazioni già
fatte dai predecessori e da lui medesimo, e gli donava ancora due corti in
Malavasio. Il di lui successore Carlo nel 1156 faceva pur dono a questo monastero
di una casa eretta in ospedale sulla pubblica strada di Testona.
Spiaceva al conte Amedeo di Savoja il sentire che questo monastero fosse molestato
da' suoi ministri per riguardo ai beni dal medesimo posseduti in Covacia,
Giaveno, Curzano, Col S. Giovanni, ed ordinava nel 1131 che non fosse ulteriormente
molestato, perocché lo accoglieva sulla sua special protezione.
Quanti fossero i beni che nel 1146 già erano pervenuti a questo monastero
si conosce da una bolla di papa Eugenio IV del 4 marzo di quell'anno, con
la quale egli pure dichiarava di prendere questo monastero sotto il suo patrocinio;
e manifestarono pure di volerlo efficacemente favorire e proteggere i seguenti
imperatori: Enrico III nel 1047 , Federico I nel 1159: con onorevolissime
espressioni mostrò poscia di volerlo favoreggiare il sommo pontefice
Nicolò IV nel 1289.
Oltre i sopraccennati vescovi di Torino, che si mostrarono tanto benefìci
verso i monaci di S. Solutore, dobbiamo noverare i vescovi Vidone, Viberto
e Mainardo, i quali li riguardarono sempre con particolare amorevolezza.
Avendo il monastero contratto alcuni debiti con Bonifacio signor di Piossasco,
denominato il Rosso, e con altri signori, vendeva ad esso Bonifacio, per soddisfare
a' suoi creditori, nel dì 25 giugno 1254, tutta la villa di Sangano
col suo distretto, e con tutti i diritti che gli spettavano, a riserva dei
mulini e dei beni ivi appartenenti alla prevostura, ma lo stesso monastero
nel 1284 ricuperava i suddetti beni dai figliuoli di Bonifacio il Rosso al
prezzo di lire 500 di Susa.
Con una transazione fattasi nel 1560 fu posto fine a gravi contese insorte
tra il monastero nell'esercizio de' suoi diritti, ed il comune di Sangano,
rappresentato da' suoi sindaci Enrietto Oddone, e Gioanni Venisio.
Ma coll'andar del tempo, i monaci di cui parliamo, degenerarono purtroppo
dalla prima loro virtù, sicché le cose spirituali, non meno
che le temporali, di giorno in giorno peggiorarono, né più vollero
quei religiosi star soggetti a quella dipendenza, che, secondo la loro istituzione,
dovevano usare, al vescovo di Torino. Per ovviare ad ulteriori disordini,
Giacomo I di Carisio, vescovo torinese, col pieno consenso di suo capitolo,
diviso d'imprendere una riforma del monastero; e primieramente ordinò
che Pietro abate della Chiusa dovesse governare la sua abadia, ed insieme
quella dei Ss. Martiri in Torino, in forma tale pero, che esso abate venendo
a morire, i monaci chiusini ed insieme quelli di S. Solutore potessero dare
liberamente e comunemente il proprio suffragio; che l’eletto sarebbe
abate dell'uno e dell'altro monastero; ma per ciò solo che riguardava
la badia di S. Solutore, la elezione di lui doveva ricevere la conferma dal
vescovo, ed in tempo di sede vacante dal capitolo di Torino; e come anticamente,
così anche per l'avvenire, esso abate di S. Solutore fosse tenuto a
prestare al vescovo di Torino il Consueto giuramento di fedeltà, ed
usargli la debita riverenza. Non potesse il vescovo pronunciare contro l'abate
sentenza di scomunica, «nisi mandatosummi Pontificis», ma bensì
quella di sospensione o d'interdetto, alle quali censure tanto esso abate,
quanto i suoi monaci dovessero rimaner soggetti sempre inteso in ciò
che riguardasse alle funzioni del solo monastero di S. Solutore, e non mai
per quelle dell'abadia della Chiusa. Che il vescovo potesse far le correzioni
che credesse necessarie sì all'abate, che a' suoi monaci, alloggiar
potesse come anticamente, in esso monastero, e visitare le cose è le
persone. Affinchè però questa disposizione fosse discreta e
di questo diritto non avessero poi ad abusare i vescovi successori, si stabilì
che due sole volte l'anno, e per soli tre giorni, potrà il vescovo
far tal visita e permanenza nel monastero. In quanto poi alle cose temporali,
siccome praticano gli altri monasteri della chiesa di Torino, così
far debba anche quello di S. Solutore, somministrando al vescovo un certo
soccorso di danaro. Ogni qualvolta il vescovo andrà alla romana curia,
sia tenuto il monastero a somministrare al vescovo, per uso e servizio del
viaggio, un sommiere degli attrezzi di cavalcatura decentemente provveduto,
somarium unum decenter et congrue preparatum»; ed il vescovo nel suo
ritorno debba restituirlo ai monaci. I canonici con li chierici della città,
andando in processione nella festa dei Ss. martiri Solutore, Avventore ed
Ottavio, dopo di avervi cantata la messa, siano tenuti i monaci ad offerir
loro una convenevole refezione: in die festivitalis, cantata missa, congrua
ci honorabilis refectio exhiberi. Consacrandosi un nuovo abate, debba egli
preparare ed offerire ai canonici un'altra refezione, non già nel recinto
del monastero, ma nel refettorio della chiesa maggiore di Torino. Essendo
consuetudine che nella domenica delle Palme, nella feria seconda dopo Pasqua,
e nelle litanie maggiori il capitolo col clero della città faccia una
processione alla chiesa di S. Solutore, siano tenuti i monaci a trovarsi alla
porta della loro chiesa per accogliere essi canonici e chierici con l'incenso,
ed acqua benedetta, ed indi servirli ne' divini uffizii. L'abate del monastero,
ogni qualvolta così ordinerà il vescovo od il capitolo, sia
tenuto a mandare alcuni suoi monaci nel giovedì santo per la consacrazione
del nuovo crisma, od anche per una processione che occorresse di fare per
li cardinali, pel vescovo, o per l'Imperatore ecc.
Tali sono gli statuti imposti al monastero di S. Salutore nel 1210 dal vescovo
Giacomo I, e dal capitolo di Torino; statuti accettati e riconosciuti ragionevoli
dai monaci. Ma il sottomettersi all'abate della Chiusa, ed essere privati
di un abate proprio, sembrò ben presto cosa troppo dura ed umiliante,
nè da doversi tollerare: molte mormorazioni seguirono perciò
entro il monastero, e molte lagnanze vennero al di fuori. Volendo quindi il
vescovo medesimo far cessare queste inquietudini, accondiscese nel 1224, salve
rimanendo le altre ordinazioni, che i monaci di S. Solutore potessero eleggersi
al proprio governo un abate, tratto dalla loro famiglia, nè più
vi potesse esercitare alcuna giurisdizione o ingerenza l'abate di S. Michele
della Chiusa.
La chiesa di S. Solutore, e l'annesso monastero furono distrutti nel 1536
insieme con tanti altri cospicui edifizii de' quattro sobborghi di Torino,
in seguito ai fatti d'armi, ed all'occupazione di questa capitale, fatta dalle
truppe del re di Francia Francesco I.
Le reliquie di quei santi martiri torinesi, unitamente ad altre che si trovavano
in quella basilica, vennero allora trasportate nella chiesa di S. Andrea,
e poste nella cappella della Consolata: colà nell'annesso monastero
andarono a risiedere i monaci di S. Solutore.
Una bolla pontificia, emanata addì 8 luglio 1570 ad istanza dell'abate
commendatario Vincenzo Parpaglia ministro del duca di Savoja presso la corte
di Roma. mentr'egli, dopo aver goduto quest'abazia per lo spazio di quarantacinque
anni stava per farne la rinunzia, servì d'appoggio agl'Ignaziani dell'allora
nascente collegio di Torino, per mettersi nel possesso di circa 700 giornate
di terreno spettanti a quest'abazia sulle fini di Torino, Settimo Torinese,
Pianezza, e Druent; e quantunque più tardi l'Abate Boggio, e il di
lui successore monsignor Ignazio della Chiesa di Roddi (1743) prendessero,
per rivendicare quegli estesissimi beni, a sostenere una dispendiosissima
lite, non poterono rimuoverne dal possedimento gli astutissimi Lojolesi.
I beni del priorato di S. Maria di Salsasio, vennero applicati nel 1474 alla
collegiata di Carmagnola; quelli della prevostura di S. Martino di Carignano
passarono nel 1519 in benefizio patronato alla famiglia della Rovere signora
di Vinovo; molti altri furono venduti verso il fine del secolo XVIII; sicchè
di questa un giorno opulentissima abazia più non rimangono se non poche
rendite non tutte sicure ob esenti da pesi, o comunque maggiori di lire, ottomila
Ebbero quest'abazia in commenda i seguenti prelati:
1492 - Amedeo de' marchesi di Romagnano, poi vescovo di Mondovì,
il quale mancò ai vivi il 17 marzo 1509.
1509 - Catalano Parpaglia.
1521 - Gian Teodoro Parpaglia, il quale quattro anni dopo,
riservandosene tutti i frutti, ed il regresso, la rinunziò al suo fratello
Vincenzo, il quale pure ai 24 di luglio del 1570 ne fece
la rinunzia in favore del suo nipote, riservandosene la metà dei frutti.
1571 - Catalano Parpaglia, nipote del precedente, tenne quest'abazia
sino alla sua morte, avvenuta nel 1594.
1595 - Il Cardinal Popoli, che la rinunziò in favore
del seguente:
Carlo Antonio Ripa. Questi, alli 30 d'agosto del 1638, la
rinunziò pure ad un suo congiunto, ritirandosi per causa di alcuni
suoi infortuni! nello stato pontifico, ore per molti anni prestò i
suoi servigi alla sede apostolica.
1638 - Vittorio Agostino Ripa : funne provvisto alli 30 d'agosto:
morì in Roma alli 4 novembre 1691.
1691 - Onoralo De-Gubernatis: la tenne sino al 1704. L'abazia
restò quindi vacante sino alla seguente nomina.
1727 - Carlo Francesco Roggio: funne provvisto il 26 di novembre:
la godette sino al 1735.
1743 - Monsignor Ignazio della Chiesa di Roddi: n'ebbe la
nomina alli 5 d'agosto: la possedette sino al 1758.
1761 - Carlo Giacinto Buglioni; la tenne sino al 1777.
1778 - Giuseppe Antonio Crotti di Costigliole.
1819 - Emanuele Gonetti, arcidiacono e vicario generale deIla
diocesi di Torino: funne provvisto colla bolla del 27 di maggio.
1824 - Il cardinal Teresio Maria Ferrerò della Marmora:
ne fu provvisto con la bolla del 17 di settembre.
1833 - Monsignor Gian Battista Colonna d'Istria, già
vescovo di Nizza: funne investito con bolla del 30 settembre: cessò
di vivere in Roma il 2 maggio 1835.
1835 - Il Cardinale Maria Placido Tadini, arcivescovo di
Genova dove morì alli 22 novembre 1847.
Trascritto come da originale
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Maria Teresa Pasquero Andruetto