Raccontata dai suoi abitanti
Il Castello dei Conti Malines
Il castello di Bruino
Fino al Mille non vi sono documenti che testimoniano la storia
di Bruino, per cui si possono fare solo delle ipotesi, ma il castello di Bruino
è senza dubbio un monumento storico che risale al periodo feudale.
Secondo lo storico Olivieri (Dizionario di toponomastica, UTET) il nome Bruino
deriva da “bruera” o “brua” (nome di origine celtica)
o semplicemente da “broa” che in dialetto piemontese significa
“al limite“ o in “fondo ad un oggetto”. Forse si voleva
indicare che Bruino sorge in riva al Sangone.
Il “Diploma Ottoniano” del 906 rappresenta il primo documento
in cui vengono indicati, con maggior precisione toponomastica e geografica
i territori e i possedimenti.
Il Diploma Ottoniano è una donazione fatta dal sovrano a favore del
vescovo di Torino Amizone, che ottenne la cosidetta immunità feudale
che lo rendeva libero da qualsiasi imposizione del potere regio locale.
Si tratta del più antico documento reperibile nell'Archivio Arcivescovile
di Torino che sancì il potere al Vescovo Conte ed il trasferimento
dei possedimenti del Marchesato Laico a favore del potere vescovile.
Nel documento non compare ancora il nome Bruino, che comparirà solo
15 anni più tardi.
Il primo documento in cui compare il nome Bruino fu la Donazione del 1011
con la quale il vescovo Landolfo donò e diede per sempre la Corte chiamata
Sangano al monastero di San Solutore, comprendente terreni, boschi, corsi
d'acqua ed anche le chiese dipendenti dalla Pieve come Trana, Bruino, Piossasco.
Bruino nel 1000 era un piccolo borgo radunato intorno ad una piccola chiesa
dipendente dalla chiesa di Sangano. Non ci sono documenti che dimostrano quali
edifici religiosi sorgessero a Bruino, ma nell'Archivivio Vescovile di Torino
si fa cenno della presenza di una piccola chiesa dedicata a Santa Maria, oggi
è identificata nella cappella di Rivarossa.
Pare che Bruino venga menzionato per la prima volta nel 1011, quando in una
“carta” il vescovo di Torino nel confermare l'erezione dell'abbazia
di Sangano, aggiunse anche quella di Bruino.
Era il periodo del feudo ecclesiastico, al quale risale anche la “Cascina
Lora, un antico monastero benedettino. Il nome probabilmente deriva da “Ora
et labora” la regola dei monaci.
Il Duecento è il secolo del passaggio dei territori del Piemonte sotto
i Savoia e segna per Bruino la fine della supremazia ecclesiastica.
Un documento di estrema importanza è il Diploma Imperiale del 1252
che conferisce ai Savoia l'autorità su gran parte del Piemonte. Questo
documento conferma che Bruino divenne feudo laico nel 1252.
Nel Diploma si trova per la prima volta la definizione di feudo: “una
concessione benevola, spontanea, perpetua, di un immobile con l'obbligo di
fedeltà e di prestazione di un servizio”. Il termine “perpetua”
potrebbe indicare che il feudo fosse ereditario.
Il feudo, essendo oggetto di infeudazione da parte dei Savoia, acquisì
il titolo di Feudo nobile, attribuito anche ai lori Signori che ebbero un
titolo nobiliare.
Nel Diploma imperiale del 1252 è contenuta l'informazione che nel feudo
esisteva un “castello antico e diroccato” e conferma l'ipotesi
che fosse stato costruito tra il 1100 e il 1150. Quando Bruino cessò
di essere domino ecclesiastico, divenne un possedimento feudale saldamente
in mano ai Savoia.
Il castello, anche se diroccato, nelle vicende di suddivisione e di acquisto
del feudo, ebbe un'importante funzione di riferimento, in quanto era l'unico
degli edifici della zona in grado di ospitare appuntamenti importanti come
le investiture.
Le cronache riferiscono che Amedeo IV conte di Savoia ricevette nel castello
di Bruino da Federico II l'investitura delle sue terre e la proprietà
del castello, ma non vi sono riscontro nei documenti.
La storia del Feudo fu contraddistinta dall'avvicendarsi, nell'esercizio feudale,
da famiglie importanti.
All'inizio i Braja e i Drò furono consignori, ma la loro convivenza
non fu pacifica.
Succesero poi altre famiglie: Baralis, Beltrandi, Canalis, Borghesi, Bertone,
Federici di Piossasco, Scozia, Olmi ed i Malines
L'avvicendarsi delle famiglie era determinata da vari fattori, quali le liti
per il possesso di porzioni di territori, la caduta in rovina che li costringeva
a vendere, le liti per questione di eredità ed anche la necessità
di dividere i territori per darli in dote alle figlie.
Nel testo “Le quattro stagioni” di Adriano Petiti. risulta che
il castello attuale fu fatto costruire dai Signori di Piossasco che lo abitarono
per un certo tempo ed era circondato da un fossato con ponte levatoio.
Nel 1483 i Federici di Piossasco ebbero l'investitura di una porzione di territorio
confinante con Piossasco e la esercitarono insieme ai Borghesi ed ai Canalis.
Il castello attuale risale qundi al XV secolo.
Il 1500 fu il secolo della costruzione della Torre, che viene segnalata in
un documento del 1541, ma non è certo che essa fosse costruita nella
posizione attuale, dove troneggia sulla piazza attuale del Municipio.
Nel 1628 il castello dovette ospitare una Compagnia di Ventura che si fermo'
dal 26 al 31 agosto, creando grandi disagi per la popolazione, perchè
i soldati si impadronirono del bestiame e costrinsero gli abitanti a fornire
vitto ed alloggio, con minacce di mettere Bruino a ferro e fuoco, se non fossero
stati accontentati
I Malines erano di origine fiamminga ed ebbero il dominio incontrastato sul
Piemonte per tutto il Settecento.
Un atto del 9 aprile del 1704 attesta che Giuseppe Ludovico Eustacchio Malines
ricevette in eredità dei beni feudali di Bruino e di Savigliano.
Da un documento del 1715 si apprende che la Famiglia dei Malines esercitava
il dominio sul castello con appartamenti rustici e civili, una casa, una stalla,
un podere, diverse giornate di prato, bosco, campo, una casa per il massaro
con stalla e orto, un mulino con due ruote ed un forno per i “particolari”
(abitanti del luogo), una roggia e il diritto di pedaggio su di essa.
Il feudo probabilmente comprendeva le terre di Avigliana, fino al Marchesato
di Saluzzo, alle quali si aggiunsero i territori di Bruino, Trana, Reano,
Villarbasse.
Lo stemma dei Malines si può ancora osservare sulla facciata esterna
del castello, rivolta verso il parco. Su di esso sono riprodotti dei martelletti,
che ricordano l'antico diritto dei feudatari di battere moneta.
Attualmente sullo stemma del Comune di Bruino ci sono degli scettri incrociati,
che formano 4 bracci a forma di x, come la croce di Sant'Andrea, ma in uno
stemma precedente c'erano, al posto degli scettri, dei martelletti per ricordare
il diritto dei feudatari di battere moneta.
La famiglia dei Malines si estinse con Enrichetta, cugina di Santorre di Santa
Rosa, che morì nubile nel 1874.
Gli eventi storici della fine del 1700, la Rivoluzione Francese, l'ascesa
al potere di Napoleone segnarono la fine della feudalità. Furono aboliti
i privilegi feudali ed ecclesiastici, i titoli nobiliari. Anche Bruino, come
in Piemonte ed in Val Sangone, risentì dei cambiamenti politici ed
amministrativi e nel 1804 nacque il Comune di Bruino, annesso all'impero francese.
Anche le famiglie nobiliari subirono dei cambiamenti
A Bruino tra il 1870 e il 1990 furono realizzate importanti innovazioni nel
settore dei trasporti, delle opere pubbiche, della viabilità quali
la costruzione della strada provinciale Pinerolo Susa, la ferrovia Torino
Orbassano Giaveno e la costruzione di bealere per irrigazione dei campi.
Nel 1854 la contessa Vittoria Berthoud de Malines vendette alla Società
Anonima Acque Potabili di Torino gli interi possedimenti
dei Malines, compreso il castello.
Successivamente la Società Anonima per la condotta delle acque potabilili
alieno' i possedimenti ai Gautier, di cui la contessa fu l'ultima discendente.
Vittoria Diodata Tealdi Gautier, vedova di Cesare Tealdi, ufficiale di Marina.
nacque a Torino il 21 febbraio 1865. I Bruinesi la chiamavano semplicemente
“Madama Tealdi” anche se era di origine nobile. Fu l'ultima castellana
che rimase nel suo feudo fino al 1945. Era una discendente dei Gautier che
subentrò alla famiglia dei Malines, tra la fine del XIX e l'inizio
del XX secolo.
Madama Tealdi ebbe l'idea di dare al centro di Bruino l'aspetto di un borgo
medioevale. Seguì personalmente i lavori, così i tetti, le finestre,
i comignoli, le facciate delle case e delle cascine, intorno al castello e
alla chiesa, si ornarono di merlature e decorazioni che ricordavano l'architettura
medioevale. Si trattava di un “falso storico”, ma il risultato
fu di grande effetto. Oggi in gran parte quel lavoro è andato perduto,
Solo alcuni tratti delle vie più vecchie, grazie all'iniziativa di
privati, conservano qualcosa del sogno della contessa Tealdi. Un tratto di
muro del castello è ancora ben conservato e si notano le “sterne”,
pietre ovali, ben levigate, prese nel greto del Sangone.
Purtroppo Madama Tealdi dovette vendere il castello e le sue proprietà,
perchè temeva delle rappresaglie, in quanto la sua famiglia si era
allineata politicamente col Fascismo. Durante la guerra infatti il castello
fu saccheggiato. La contessa vendette il castello e le sue proprietà
per una cifra che si aggirava intorno alle 14.000 lire e lascio' Bruino il
paese che aveva tanto amato, Di lei non si ebbero più notizie.
Le notizie storiche dettagliate si possono reperire dal testo “Bruino: storia di Conti e contadini” di Marcella Dovis, Giovanni Carlo Franchino, Diogene Franzoso Ed.CAM
A cura di Graziella Chiavassa Clari
Il Parco del castello
Tra il 1930 e 1940 il parco era molto curato. Vi si accedeva
dal ponte sul fossato denominato “La Peschiera” che circondava
il castello.
Nella “Peschiera” guizzavano carpe, lucci ed anche anguille. La
proprietaria del castello, la contessa Tealdi, battendo i piedi, richiamava
l'attenzione dei pesci che venivano a galla, per ricevere le briciole di pane.
In un'ansa del fossato, dove la corrente era meno forte, c'era una magnifica
ninfea, sulle cui foglie, nelle notti d'estate, le rane effettuavano i loro
concerti.
Ormeggiata ad un palo vi era inoltre la “Rosina”, barchetta azzurra,
sulla quale ogni anno i bimbi dell'asilo erano invitati a fare un giretto.
Il parco era bellissimo, pieno di piante secolari ed esotiche, alcune di dimensioni
enormi tanto che ci volevano tre persone per abbracciarle. Era ornato da bellissime
aiuole con fiori per tutte le stagioni dell'anno.
Vi erano inoltre due montagnole di terra coperte da ciclamini e mughetti.
Due vialetti lo attraversavano per permettere le passeggiate ai proprietari
ed ai loro amici che venivano a trovarli.
Vi lavoravano 27 persone. Al fondo del viale c'era una cappella, detta di
San Rocco, dove giacevano le spoglie dei defunti Gautier.
Ogni anno il 25 aprile, festa di San Marco, si faceva una processione che
dalla Parrocchia si snodava fino alla cappella dove si officiava la Santa
Messa.
Nel 1944 il castello col suo Parco fu venduto dalla contessa Tealdy ad un
commerciante di legname, che tagliò molti alberi per venderli.
Nel 1952 purtroppo alcuni vandali dettero il colpo di grazia alla cappella
di San Rocco, profanandola, rompendo l'altare e gettando a terra le ossa delle
salme custodite nella tomba dei Gautier.
Le quattro stagioni di Adriano Petiti
Il parco del castello
La Cappella di San Rocco
Al fondo del viale vi era una Cappella detta di "San Rocco", dove
giacevano le spoglie dei defunti Gautier, parenti della Contessa Tealdy.
La Cappella di San Rocco
Al fondo del viale vi era una Cappella detta di "San Rocco", dove
giacevano le spoglie dei defunti Gautier, parenti della Contessa Tealdy.
Vittoria Diodata Tealdi Gautier, vedova di Paolo Cesare Tealdy,
ufficiale di Marina, nacque a Torino il 21 febbraio 1865.
I Bruinesi la chiamavano comunemente “Madama Tealdi” anche se
era di origine nobile. Dai registri comunali risulta di condizione “agiata”.
Fu l'ultima castellana di Bruino che restò nel suo feudo fino al 1945.
Era discendente dei “Gautier” che subentrò alla famiglia
dei “Malines” tra la fine del XIX secolo e l'inizio del XX secolo
nel dominio di Bruino. La contessa era l'ultima discendente della famiglia
Gautier, ma dovette vendere il castello
e le proprietà per evitare rappresaglie e distruzioni., La contessa,
proprietaria del castello e degli edifici del centro storico, era la principale
possidente del paese, ma era allineata politicamente a favore di Mussolini.
Quando scoppiò la seconda guerra mondiale il suo schieramento politico
divenne evidente anche perché il figlio di Madama Tealdi era gerarca
a Torino. Il castello di Bruino venne venduto per una cifra indicativa di
14.000.000 lire e venne diviso tra vari proprietari. Il mio bisnonno Arturo
De Marchi acquistò la cascina antistante il castello, denominata “Rivarossa”,
sulla cui facciata appare l'affresco di San Martino, dipinto nel 1933 dal
pittore Carlo Morgari
su commissione della contessa Tealdi.
Bruino
all'inizio del secolo contava un centro storico, un borgo rurale ed una rete
di strade che permetteva di raggiungere le cascine sparse nel territorio.
Gli abitanti si conoscevano tutti erano prevalentemente dediti all'agricoltura.
Solo con la costruzione di alcune fabbriche nei dintorni cominciò lo
sbocco occupazionale alternativo alla coltivazione del campi per coloro che
non avevano terre. Per i trasporti si servivano oltre ai carri e carrozze
trainati da animali anche della “scionfetta”
o “caffettiera”, un trenino a vapore che collegava Torino con
Orbassano e Giaveno, che procedeva alla velocità di diciotto chilometri
all'ora e che venne sostituita nel 1957 dai pulmans.
L'idea di dare al centro di Bruino l'aspetto di un antico borgo medioevale
fu di “Madama Tealdi”,come veniva chiamata amichevolmente dai
Bruinesi. Ella provvide nel corso degli anni Trenta a dare l'aspetto di un
borgo medioevale al centro di Bruino.
Seguì personalmente i lavori, così i tetti, i comignolo, le
finestre, le facciate sia delle case che delle cascine, edificate intorno
alla chiesa, si ornarono di merlature e decorazioni che richiamavano le architetture
del Medioevo. Si trattava di creare un falso storico, ma il risultato fu di
grande effetto. Oggi in gran parte quel lavoro è andato perduto o irrecuperabile.
Solo alcuni tratti delle vie più vecchie, grazie all'iniziativa di
privati, conservano qualcosa della realizzazione del sogno della contessa.
Tra i manufatti bene conservati vi è un muro di cinta che dal castello
si spinge nell'attuale via Sangano,
per la cui costruzione vennero utilizzate delle “sterne”, pietre
ovali regolari, ben levigate, prese nel greto del Sangone.
Anche la casa in cui abito, in Via Orbassano 10, che era la cascina “Rivarossa”
del castello, è stata recentemente restaurata, ma le facciate, le finestre,
i tetti presentano le decorazioni medioevali realizzate seguendo i disegni
recuperati nell'archivio comunale. Sulla parete c'è ancora l'affresco
di San Martino che è il punto di incontro per le fiaccolate. Purtroppo
il castello di “Madama Tealdi” è chiuso ed in rovina e
ci ricorda tristemente il passato. Fortunatamente il parco è stato
recentemente acquistato dal Comune e visitabile in alcune occasioni
Ormai pochi anziani ricordano la nobildonna che amava tanto Bruino,
perché sono quasi tutti scomparsi, ma parlavano di lei come una donna
dolcissima, pronta a soccorrere chi ne aveva bisogno con un piccolo lavoro
ed un aiuto materiale, soprattutto d'inverno quando la campagna era improduttiva.
La mia nonna Nucci la descriveva come una bella signora con l'aspetto di una
castellana, alta distinta, con i capelli bianchi, raccolti in un crocchia.
Alcuni ricordavano che ogni anno, a Pasqua, apriva ai bambini le porte del
parco del castello e nascondeva tra i cespugli delle uova, perché si
divertissero a cercarle; era una specie di caccia al tesoro ma per i bambini
dell'epoca ,che non avevano niente, era un gran divertimento.
Aveva una nipotina con lunghe trecce bionde che le assomigliava molto; quando
veniva in visita chiamava un signore chiamato Miro, perché la portasse
in giro col calessino.
Alcuni dicevano che lavorare per la contessa era piuttosto difficile, perché
cambiava opinione finito il lavoro, faceva disfare e rifare, sotto la sua
attenta direzione.
La contessa Tealdi lasciò il paese che aveva amato tanto per le conseguenze
della seconda guerra mondiale e perché temeva rappresaglie, essendo
il figlio aderente al Fascismo. Una notte infatti durante la guerra il castello
fu saccheggiato.
La maggioranza dei Bruinesi condannarono questo fatto dicendo che la contessa
aveva fatto del bene a tutti, soprattutto ai bambini. E proprio i bambini
diventati grandi ebbero il coraggio di farle un dispetto simile, ma nessuno
di loro ebbe fortuna. Non sono riuscita a reperire altre notizie della contessa
dopo la sua partenza da Bruino.
A cura di Anna Actis Goretta
Bruino - A dx un muro in pietra, Piazza del Municipio e Castello Tealdi
I comignoli e le decorazioni
Altre decorazioni all'antico negozio
della merceria di Severina Valfrè 1896-1975, oggi Prestige
Muro costruito con pietre ovali regolari, ben levigate, prese nel greto del Sangone
Inverno a Bruino
Il Castello e lo stemma dei Malines
Il castello era il simbolo del potere feudale. Attualmente il castello è in rovina ma c'è ancora” un muro” che ricorda il dominio di questi feudatari. Sulla facciata esterna del castello, rivolta verso il parco si ammira lo stemma dei Malines. Su di esso sono riprodotti tre martelli che ricordano l'antico diritto dei feudatari di battere moneta tre volte la settimana e il collare dell'Annunziata, massima onorificenza concessa dai Savoia al conte Francesco Roberto Malines.
Affresco di San Martino
San Martino è il patrono di Bruino. Il santo fu dapprima
un cavaliere, poi monaco ed infine vescovo di Tours.
Su una casa di Bruino, in Via Orbassano, 10, che un tempo si trovava all'inizio
del paese, c'è un affresco che rappresenta San Martino in veste di
cavaliere, mentre dona il suo mantello ad un povero. Secondo la nota leggenda,
il suo atto di generosità diede origine all’estate di San Martino”.
Caratterizzata da un clima freddo al mattino da un mezzogiorno e pomeriggio
caldo. La casa era una dependance del castello di Bruino, le facciate sono
ornate da decorazioni pittoriche che ricordano il Medioevo, che compaiono
pure sulle case del centro storico.
Si deve alla contessa Vittoria Tealdi, discendente dei Gautier, nobili proprietari
del castello, l'idea di dare al centro storico l'aspetto di un borgo medioevale.
L'affresco di San Martino porta la data del 1933 ed è opera del pittore
Carlo Morgari che per realizzarlo soggiornò a Bruino. Carlo Morgari
era bravissimo nei dipingere animali, come dimostra il cavallo dell'affresco.
Apparteneva ad una famiglia di pittori da più generazioni.
Il padre Luigi affrescò molte chiese e cappelle del Piemonte con figure
sacre dai visi estremamente espressivi. La sorella Emilia era brava nel dipingere
fiori, l'altro fratello Paolo era pure un pittore, ma era piuttosto estroso
e stravagante. Carlo fu l'ultimo dei pittori di casa Morgari, dopo di lui
nessuno continuò la tradizione pittorica. La famiglia Morgari abitava
a Torino in San Salvario, dove nei primi anni del Novecento risiedevano nobili
e professori universitari. La loro casa era grande con uno studio luminoso
ed un grande salone in cui si tenevano concerti con l'arpa suonata da Margherita
la sorella di Carlo, organizzati dalla mamma la contessa Teresa Buffa di Perrero.
Nella casa Morgari si respirava l'atmosfera descritta da Natalia Gimsburg
nel libro “Lessico Famigliare”
A dx l'affresco di San Martino dipinto nel 1933
dal pittore Carlo Morgari (viaggiata 1936)
Bruino innevata
L'affresco di San Martino dipinto nel 1933 dal pittore Carlo Morgari
I muri, i documenti gli oggetti di uso comune raccontano la storia di Bruino
La storia non si studia solo sui libri, ma è interessante
far parlare i luoghi che visitiamo ed in cui viviamo. Spesso passiamo accanto
ad un monumento, non ci soffermiamo a leggere le scritte e non sappiamo a
cosa si riferisce. Con questo lavoro, che dedico ai ragazzi, ho cercato di
risvegliare la loro attenzione sulle testimonianze del passato. Sono andata
alla ricerca dei documenti, degli edifici, delle testimonianze orali, dei
video che raccontano la storia di Bruino, I muri non sono simbolo di divisione,
ma ci possono ricordare le nostre origini.
Su il “Grande dizionario di Toponomastica” ed UTET risulta che
Bruino era già nominato nel 1011 e che era feudo nel 1282. Secondo
lo studioso Olivieri pare che il nome Bruino
derivi da “bruera” o “brua” nome di origine celtica
o da “broa” che in termine dialettale significa “al limite”
o “al “margine”. Nel dialetto piemontese “a broa”
significa al limite o al fondo di un oggetto. Forse il nome significa che
Bruino sorgeva “a broa” del Sangone. Occorre tenere conto che
nel corso dei secoli il Sangone ha deviato il suo corso che non corrisponde
a quello attuale.
Un documento importante per la storia di Bruino è il “Diploma
Ottaviano” del 996 in cui vengono indicati con maggior precisione toponomastica
e geografica i territori.
Nel “Diploma Ottaviano” l'imperatore di Sassonia Ottone III concesse
in donazione al vescovo di Torino la Pieve
di Sangano da cui dipendeva la chiesa minore di Bruino.
Bruino intorno all'anno Mille era un piccolo borgo che sorgeva intorno ad
una piccola chiesa dipendente dall'Abbazia
di San Solutore. Sarebbe interessante sapere quale edificio
religioso sorgeva in Bruino
intorno all'anno Mille, ma nell'archivio Arcivescovile di Torino si accenna
ad una chiesa dedicata a Santa Maria, risalente al XII secolo, che è
stata identificata nella cappella della Madonna di Rivarossa, successivamente
ristrutturata. Forse è bello pensare che il primo muro che racconta
la storia di Bruino sorgeva dove adesso c'é la cappella della Madonna
di Rivarossa.
La Pieve era un'organizzazione simile a quella feudale, comandata da un Abate
a cui dovevano ubbidire gli abitanti. L'Abate si comportava come un feudatario
(dominus) amministrava la giustizia, concedeva ai contadini dei “Fundus”,
piccoli appezzamenti di terreno dai quali potevano trarre sostentamento, ma
in cambio dovevano corrispondere al padrone dei tributi ed erano obbligati
a prestare delle giornate di lavoro gratuite (corvées) sulle terre
del dominus. L'Abate era il loro Signore a cui dovevano dare massima obbedienza.
L'Abate a sua volta doveva corrispondere ogni anno al Vescovo di Torino dei
tributi che consistevano in un maiale ed in un somaro.
Dal Feudo Ecclesiastico al Feudo Laico
Il Duecento é il secolo che segna il passaggio dei
territori del Piemonte sotto i conti di Savoia e segna per Bruino la fine
della supremazia feudale ecclesiastica per lasciare il passo alla nascita
dei primi feudatari laici.
Ai Savoia interessavano i controlli di tutte le vie più importanti
del Piemonte per poter incassare i pedaggi. Ogni volta che si passava per
una strada, si pagava il “pedaggio”, su un ponte “il pontatico”.
A poco a poco acquistarono molti castelli del Piemonte e della cintura di
Torino e della Val Sangone.
Un documento di straordinaria importanza fu il "Diploma imperiale"
del 1252 che conferisce ai Savoia l'autorità su gran parte del Piemonte
ed anche su Bruino.
Bruino nel 1252 divenne Feudo laico che vide succedersi molte famiglie di
feudatari tra cui i Drò, i Braida, i Canalis i Malines All'interno
del feudo il castello era la dimora del Signore, ma all'inizio erano dei grossi
cascinali.
Uno dei muri che si incontrano nella nostra passeggiata storica è certamente
la Torre del Castello. che fu costruita nel 1541 dai Malines, ma forse in
un luogo diverso dalla torre precedente
La leggenda della Croce Barone
Dopo la battaglia del
4 ottobre 1693 i Francesi ritornarono più volte
a combattere sul posto con gravi danni per la popolazione. I duca di Savoia
Vittorio Amedeo II per riorganizzare l'esercito mando' la cartolina-precetto
a tutti gli uomini ed i ragazzi del luogo per richiamarli a combattere.
Nel giorno stabilito un giovane si presentò in ritardo in caserma,
perchè aveva poca voglia di combattere. Vestito ed armato, passando
in rassegna tutti i cavalli disponibili, scartò decisamente i migliori
e si fece assegnare il cavallo più piccolo, malandato e zoppo. Quando
arrivò sul campo la battaglia era già iniziata, ma il cavallo
azzopato ormai stanco si appoggio' alla croce di legno, che essendo tarlata,
al primo scossone si staccò dal suolo. Il giovane soldato la prese
in spalla per non lasciarla cadere e per evitare il sacrilegio. I soldati
francesi dalla parte opposta avanzarono furiosi verso di lui con i loro cavalli.
Al dileguarsi della nebbia che in quel giorno circondava il campo di battaglia
e della polvere, videro la croce ondeggiare, circondata dai raggi di sole.
I Francesi pensarono che Gesù Cristo in persona fosse disceso in aiuto
dei Piemontesi e si levò un grido unanime “A l'é rivaje
'l bon Dieu! La guera a vinc...” (E' arrivato il buon Dio! Vince la
guerra!…).I Francesi impauriti indietreggiarono all'istante, mentre
in nostri soldati, con un'improvvisa ripresa , li inseguirono fino a quando,
uniti ai Francesi sconfitti ed in fuga da Torino, grazie al sacrificio di
Pietro Micca (1706) attraversarono i confini e non ritornarono mai più.
La “croce Barone” è uno dei “muri” che ricorda
un evento importante della storia di Bruino..
La Croce Barone alla cascina la Bruina
Ai Temp Dij temp
Dai racconti degli anziani si rileva che alla fine della
seconda guerra mondiale ad ora Bruino è profondamente cambiato.
Da un paese prevalentemente agricolo, con appena settecento abitanti, si era
trasformato in un “paese dormitorio”, perché l'industrializzazione
aveva richiamato dalla città molte persone, che avevano trovato lavoro
nelle fabbriche dell'indotto Fiat. Attualmente molti abitanti, al mattino,
lasciano Bruino per raggiungere il posto di lavoro a Torino o nei paesi vicini.
Con l'aumento del benessere molti si erano costruiti una casetta nei nuovi
villaggi, sorti intorno al centro storico, come La Quercia, Val Verde, Marinella,
Alba Serena. Scomparvero dei campi coltivati ed anche le storiche vigne del
tokai per far posto alle nuove costruzioni
Bruino
attualmente conta più di ottomila abitanti, ma l'aumento della popolazione
e l'arrivo di gente nuova aveva creato all'inizio difficoltà di aggregazione
sociale. Purtroppo molte persone che potrebbero raccontare cose interessanti
sulla vecchia Bruino non ci sono più, ma ritengo che la memoria orale
sia molto importante, per cui ho cercato di raccogliere alcuni ricordi di
persone disponibili ed ancora lucide mentalmente e di dedicarli ai giovani
di adesso, affinché sappiano com'era Bruino negli anni passati.
Alla fine della guerra Bruino aveva solo circa settecento abitanti per cui
tutti si conoscevano, si chiamavano per nome ed avevano anche legami di parentela.
Gli abitanti erano quasi tutti contadini ed anche i bambini collaboravano
con i famigliari nelle attività agricole, come la fienagione, il pascolo,
la vendemmia.
I lavori dei campi erano strettamente legati ai fenomeni atmosferici, non
c'erano le previsioni del tempo date dall'Aeronautica Militare; ci si basava
sui proverbi, i vecchi dicevano che un segnale del peggioramento del tempo
era l'acuirsi dei reumatismi. I contadini osservavano il cielo sul monte San
Giorgio; quando la cima era oscurata da nuvole nere tutti
scappavano a casa, ritirando carri ed attrezzi, perché temevano un
brutto temporale. Un proverbio della zona non dava però indicazioni
precise, perché suonava così: “Quando il San Giorgio ha
il cappello, o fa brutto o fa bello”. Pochi sanno che sul campanile
c'è un galletto in ferro che, a seconda della posizione presa ruotando,
segna il tempo. Il monte San Giorgio costituiva un appuntamento fisso del
Primo Maggio, perché soprattutto i giovani salivano a piedi, in allegre
comitive sulla sua cima, passando dalla borgata Moranda di Trana, per fare
merenda.
I negozi e gli ambulanti
Non c'erano supermercati, ma nei piccoli negozi si trovava
di tutto quello che serviva, perché la gente non aveva grandi pretese.
Il piccolo negozio era anche un luogo per socializzare, scambiarsi le notizie
ed anche i pettegolezzi. Pochi avevano l'abitudine di leggere il giornale
Si vendeva quasi tutto sfuso, utilizzando la carta per avvolgere la merce,
non c'era il problema dell'inquinamento e del riciclaggio dei rifiuti. Lo
zucchero veniva venduto sfuso e il negoziante lo avvolgeva con la carta blu.
con una straordinaria abilità nel fare il pacchetto. La carta blu veniva
anche usata per curare i “bolli” (gli ematomi) che i bambini si
procuravano giocando sfrenatamente. Si prendeva un quadratino di carta blu
e la si applicava sul bollo con un po' di lardo o burro. Se il bollo era vistoso
lo si premeva con una moneta. I negozi avevano dei mobili con tanti cassetti
dove veniva messa la pasta, lo zucchero, i legumi secchi e si estraeva il
prodotto con una paletta, lo si pesava a volte col peso a stadera ed impacchettato.
I macellai usavano invece una carta gialla piuttosto spessa per avvolgere
la carne e le acciughe.
Non si faceva la raccolta della carta, perché veniva usata per accendere
la stufa, avvolgere la verdura, le uova e nelle famiglie più semplici
persino (non stupitevi) anche come carta igienica. Non c'erano i cartoni del
latte in Tetra Pak, perché si andava a comperarlo dai contadini col
“barachino”, magari appena munto. Il mattino dopo, in superficie,
si era formato una strato di panna, che veniva raccolta col cucchiaio, conservata
in un contenitore e quando ce n'era a sufficienza si faceva il burro con la
“burera”. La plastica, attualmente considerata responsabile dell'inquinamento
era quasi sconosciuta. Se non si andava a prendere il latte dai contadini
che avevano le mucche lo si comperava dal lattaio in piazza che vendeva anche
un formaggio buonissimo ”il rebrochon“ di sua produzione. Non
c'erano frigoriferi e surgelatori ed il cibo veniva conservato nella “Muschera”,
un piccolo armadietto con delle retine che veniva collocato nella camera piu
fredda della casa.
Mi hanno raccontato anche che un tempo, dopo la mietitura, alcune famiglie
portavano dei sacchi di grano al mulino dove veniva trasformato in farina,
Questa era poi portata al fornaio di Piossasco, da cui andavano a prendere
il pane di un peso corrispondente alla farina. Del mulino di Bruino che si
trovava vicino ad una bealera è rimasto solo il nome della via, perché
al suo posto sono state costruite delle nuove case,
Dove c'è attualmente il negozio di scarpe c'era il macellaio, ma la
carne era un lusso che si mangiava una volta la settimana, alla domenica.
Quasi tutte le famiglie allevavano conigli e polli per avere le uova. Erano
utilizzate anche le pelli dei conigli che venivano portate a conciare nella
conceria sita in Via. Orbassano 10. Poche famiglie allevavano il maiale; per
sopprimere la povera bestia arrivava un macellaio specializzato nella preparazione
dei salami e della salciccia. Per evitare che i bambini assistessero alla
scena li mandavano via con una scusa. Alla sera si organizzava la “sina
''l crin” (la cena del Maiale) alla quale partecipava tutto il vicinato
che aveva collaborato nella lavorazione della carne. Era un'occasione per
cenare in allegra compagnia.
In piazza dove c'è adesso la banca c'era una salumificio che macellava
gli animali e vendeva salami.
Dove cé attualmente la merciaia
c'era il negozio di Severina Valfrè in Cellone 24-11-1896 - 30-7-1975,
che vendeva stoffa, prodotti di merceria, pochi prodotti di abbigliamento:
mutande e anche mutandoni lunghi, perché gli uomini li usavano, in
inverno, per ripararsi dal freddo, Gli slip erano sconosciuti ed al posto
dei boxer in estate usavano delle mutande di cotone corte. Severina vendeva
anche chiodi ed altri prodotti di ferramenta.
In Via Sangano c'era il negozio di commestibili di Magna Gina, una specie
di bazar, dove si trovava di tutto.
Dove adesso c'é il Kebab c'era un negozio di generi agricoli che vendeva
mangimi, sementi, attrezzi agricoli e successivamente bombole di gas, perché
alcune famiglie avevano cominciato ad usare il fornello col “pipigas”
al posto della stufa.
Non c'erano le lavatrici e nemmeno il detersivo, le donne lavavano a mano
col sapone “Marsiglia”.
Un lavoro faticoso era “la liscia”, il lavaggio con la cenere
che si effettuava circa una volta al mese; i capi sporchi si ammucchiavano
e quando c'era una certa quantità si procedeva a lavarli a mano con
la cenere, che funzionava come un ottimo sbiancante. Era un lavoro faticoso,
perché le lenzuola di canapa, erano pesanti e ruvide. Le signore ricche
invece si servivano dei “lavandé” che avevano una cascina
sull'angolo di Via .Pinerolo Susa; affidavano loro la biancheria ed essi andavano
a lavarla nel Sangonetto di Piossasco.
Al centro del paese c'erano tre osterie (piole o ostu). Mi è stato
detto che prima della guerra, c'erano addirittura cinque osterie. Allora erano
un centro di aggregazione; gli uomini alla sera, dopo il lavoro dei campi
andavano all' “ostu” per giocare a carte, a bocce e per bere un
bicchiere del buon “tokai”. Purtroppo c'erano molti ubriachi che
tornavano a casa, traballando sulle gambe e magari cantando. Le osterie erano
frequentate solo dagli uomini. C'erano anche degli ambulanti che passavano
di paese in paese per offrire la loro merce. Alcuni ricordano la “mersera”
che arrivava a piedi da Villarbasse con due capaci borse che contenevano scampoli
di stoffe per cucire vestiti per donne, bambini e indumenti da lavoro per
gli uomini. I vestiti erano confezionati in casa, quasi tutte le mamme erano
in grado di cucire dei semplici abiti, a volte anche riciclando delle parti
di stoffa di altri abiti. Per i vestiti della festa ci si rivolgeva a delle
sarte che lavoravano in casa.
C'era il pescivendolo che arrivava in bicicletta, portando due cassette; in
quella davanti c'erano delle scatole con le acciughe e la ventresca di tonno,
in quella posteriore c'erano i pesciolini e le anguille dei laghi di Avigliana,
che, essendo ancora vive, a volte. uscivano dalla cassetta e scappavano per
la strada.
Le acciughe erano molto usate, perché insieme al merluzzo erano i pochi
alimenti di mare che potevano permettersi in quei tempi ed allora arrivava
anche l'”Anciovè” che i vecchi ricordavano per l'odore
caratteristico, perché trattava la merce con le mani. Gli “anciovè”
ebbero una parte importante nella storia del Piemonte, perché contribuirono
al trasporto del sale, un prodotto indispensabile per la conservazione del
cibo, nell'epoca in cui non c'erano frigoriferi.
Il sale però era soggetto a pesanti tasse doganali e pare che dei contrabbandieri,
per evitare il pagamento di tasse avessero coperto il sale con delle acciughe,
senza pensare che il pesce, così conservato, sarebbe diventato un vero
tesoro. In principio le acciughe servivano solo per coprire il sale, ma poi
diventarono una vera fonte di reddito.
Dalla Valle Maira gli uomini scendevano verso il mare per scambiare la tela
di canapa col pesce salato percorrendo una delle” vie del sale”
che, partendo dalla Liguria di Ponente, dove al mattino arrivavano i pescatori
con le acciughe, messe poi sotto sale dalle donne, saliva verso il col di
Tenda e puntava verso Cuneo. I contrabbandieri scoprirono che le acciughe
si vendevano bene così nel Settecento iniziò un fiorente commercio
che si estese a tutto il Piemonte grazie agli “anciovè”,
ambulanti che vendevano le acciughe.
Si formò una vera e propria dinastia di “anciovè”
che si tramandavano il mestiere di padre in figlio e scelsero come patria
Dronero un paese in provincia di Cuneo sulla ”via del sale”. Le
acciughe erano usate per la “bagna cauda” che costituiva uno dei
momenti conviviali a cui partecipavano più persone. Al centro del tavolo
c'era un “tupin“ di terracotta nel quale tutti i commensali bagnavano
i “gobbi” (cardi) ,sedani, “tapinabo” i peperoni “i
puvrun” suta rapa”
In quei tempi si usavano molto le pentole di rame, che richiedevano una manutenzione,
ed allora intervenivano i calderai “i magnin” che giravano di
paese in paese e provenivano da Locana un paesino del Canavese.
Da Pont arrivavano gli “spacia furnel” (gli spazzacamini) che
erano accompagnati da bambini col viso nero di fuliggine, perché col
loro fisico minuto potevano calarsi nella cappa del camino. Erano povere creature
affittate dalle famiglie agli spazzacamini, per ricavare un po' di denaro.
C'erano pure i “cadreghè” ( i seggiolai ) che aggiustavano
le sedie e ricostruivano la parte, su cui ci si sedeva, intrecciando in modo
artistico delle corde ricavate dalle pannocchie di granoturco.
Quando arrivava l'arrotino si sentiva il suo caratteristico richiamo ”Molita!
Molita! Correte donne è arrivato il molita|” e le donne accorrevano
pe farsi affilare forbici e coltelli.
Il negozio dell'antica merceria di Severina Valfrè 1896-1975 (viaggiata 1919)
Caffè Ristorante (viaggiata 1919)
Tabacchi commestibili e salumeria commestibili (viaggiata 1957)
A dx un'osteria
La Piazza con la Trattoria e altri negozi
Il castello di Bruino dal secondo dopoguerra fu letteralmente lasciato andare in rovina. Apparteneva ad un certa signora Tealdi, che possedeva buona parte delle abitazioni del centro del paese. Nel 1957 i coniugi Celestino e Pierina Ferrero con l'aiuto dei figli Emilio, Giovanni e Esterina presero in gestione il castello trasformandolo in ristorante. Nel giugno iniziarono i lavori di ristrutturazione dei vari locali come ad esempio la costruzione della scalinata e della balconata di ingresso al ristorante. Aprirono l'anno seguente e lo gestirono fino al 1977. Ogni anno imbottigliavano circa 10.000 bottiglie di vino e quasi sempre il ristorante andava a pieno regime.
Ferrero Emilio - Piazza Municipio, 12 Bruino
Pizzeria Bar Ristorante Castello, marzo 2023
A Bruino passava il trenino “La sciunfeta” o
“caffettiera” a carbone che un tempo transitava proprio nel centro
del paese e faceva una fermata davanti al Muncipio. Andava alla velocità
di 18 chilometri all'ora. Quando si trasformò in un trenino elettrico
raggiunse la velocità di trenta chilometri all'ora, cambiò percorso
e passava all'esterno del paese. Alcuni ricordano che quando arrivava all'inizio
del paese fischiava, ma la sua velocità ridotta permetteva agli studenti
ed ai giovani che andavano al lavoro di buttarsi giù dal letto, vestirsi
e raggiungere di corsa il trenino Quando arrivava ad Orbassano dove c'era
la coincidenza con Cumiana scendevano per lavarsi la faccia ad una fontana,
perché non avevano avuto il tempo di farlo. Il fischio del trenino
funzionava da sveglia.
Quando arrivava a Trana il trenino, che venne poi chiamato “tramvay”,
non riusciva ad affrontare la salita ed allora alcuni scendevano a spingere
e lo raggiungevano di corsa in cima.
A sx la stazione con la panchina, a dx il Municipio
Il trenino elettrificato
La scuola
La scuola era dove adesso c'è il Municipio; in passato
c'era solo una classe, ma poi c'erano tre pluriclassi: la prima e la seconda
insieme, la terza da sola, la quarta e la quinta insieme.
I banchi erano di legno, piuttosto scomodi, si scriveva con la penna col pennino:
il calamaio era infilato in un buco del banco e veniva riempito di inchiostro.
I quaderni avevano la copertina nera col bordo rosso. Si usavano ancora le
punizioni corporali, le maestre era dotate di bacchetta. Un giorno degli scolari
discoli vennero messi fuori della porta, ma uscirono, si arrampicarono sul
campanile e cominciarono a suonare le campane. Una volta degli scolari, scappati
da scuola, andarono a pattinare nella “peschera “gelata del castello,
ma il ghiaccio si ruppe; uno di loro, cadde dentro l'acqua gelata, ma riuscirono
a salvarlo.
La peschiera del Castello
La scuola elementare
Foto ricordo davanti alla scuola
I giochi
Alla sera, invece di guardare la televisione, i bambini si
radunavano a giocare nei cortili o per le strade, perché passavano
poche automobili. Si giocava a “stermese” (nascondersi), a “teila”
o “settimana”. a “porta a n'aria” (rialzo). Le bambine
in gruppetto giocavano alla “bella lavanderina” ”Madama
Doré” e a “Polenta Franseisa” che erano accompagnate
da conte e filastrocche. Si giocava molto a “Palla maestra” buttando
contro un muro una palla, compiendo precisi movimenti e recitando la filastrocca
“Palla, pallina, dove sei stata? -, Dalla nonnina. Cosa ti ha dato:
una palllina, Eccola qua!” I maschi ed anche delle femmine, costruivano
un circuito per terra dove facevano scorrere le”bije” ( le birille
di vetro), giocavano con le “plance” (figurine) o col “ciapin”
un ferro di cavallo che si tirava cercando di infilarlo in un bersaglio chiamato
“pichet e con la flecia” per colpire dei bersagli con una pietra
Si giocava in gruppo a “Darsela”. Si doveva correre e toccare
un altro e dirgli “Ce l'hai” e quello a sua volta correva per
colpire un altro, che prendeva il suo posto.
A “Man caoda” giocavano piccoli e grandi. A turno uno si metteva
con la faccia contro il muro e teneva dietro la schiena la mano con il palmo
girato in fuori: gli altri si avvicendavano battendo un colpo sulla mano e
chi era sotto doveva indovinare chi lo aveva colpito: Dopo tre sbagli doveva
fare penitenza. Non mancava chi, per scherzo, dava dei colpi con la ciabatta
o oggetti vari per non farsi riconoscere.
Alcuni bambini accompagnavano i genitori nei lavori della fienagione, aiutavano
a rivoltare il fieno e raccoglierlo alla sera in “capele” (mucchi),
ma poi giocavano con il fieno, si rincorrevano, rotolavano, facevano capriole,
si lanciavano manciate di fieno, e a nascondino tra le “capele di granoturco,
dopo la raccolta, venivano depositate in grandi mucchi sulle aie i bimbi facevamo
la gara per raggiungere la parte più alta del mucchio e buttarsi dentro.
Anche la vendemmia era l'occasione per ritrovarsi insieme e giocare tra i
filari. Nella zona dove è sorto il villaggio “Alba Serena c'erano
delle vigne di Tokay.
Di questi vitigni sono rimaste alcune viti in terreni di pochi appassionati
e nostalgici.
In inverno invece i bambini giocavano con la neve che cadeva in abbondanza
non si andava a sciare in montagna, ma ci buttavano giù per la discesa
di ”Pra Rost”, magari anche rotolando. Si giocava a fare la “sghiarola”.
Il posto ideale era in via Sangano, che non era asfaltata; al centro della
strada c'era un avvallamento che veniva allagato, in modo che si formasse
uno strato di ghiaccio e servisse come pista di pattinaggio, ma invece dei
pattini usavamo i “suchet” (zoccoli).
Le cerimonie religiose
C'era una grande partecipazione alle cerimonie religiose
come le novene di Natale, la processione di San Martino. A quella del Corpus
Domini partecipavano molti bambini. Quelli dell'asilo
erano vestiti da angioletti. Le bambine indossavano il vestito della prima
Comunione, portavano un cestino pieno di petali di rose e di fiori, che le
loro mamme avevano raccolto nei giorni precedenti e li spargevano durante
il percorso. Alcune bambine indossavano il vestito più bello ricamato
a mano o di organdis I maschietti erano vestiti da chierichetti. Le donne
si coprivano il capo con la “cuefa” un velo rettangolare di pizzo
nero o con la “spagnoletta”, un velo di pizzo a forma di rombo
con i vertici arrotondati. Gli uomini erano vestiti di scuro con una camicia
bianca e procedevano a capo scoperto in segno di rispetto. Un tempo c'erano
molte Compagnie di donne come quella delle “Vedove”, quella delle
sposate “dla Dulurà”, delle “Mare cristiane”,
La “Compania dle Fije 'd Maria” era costituita da donne da sposare
o da ragazze dai tredici anni in su. Accompagnavano le processione portando
lo stendardo della Madonna Immacolata o i funerali portando la Croce. Indossavano
il “Camus” un vestito bianco di percalle, legato a vita da un
cintura blu che pendeva da una parte, lunga fino ai piedi e con le maniche
lunghe. In testa portavano un velo bianco, lungo fino ai piedi, puntato sul
capo con spilli, al collo avevano, appesa ad un nastro blu, una medaglia con
l'effigie della Madonna Immacolata.
I balconi e le finestre erano adornati con la biancheria più bella
di casa, lenzuola ricamate, coperte fatte all' uncinetto, davanti alle case
erano messi dei vasi di fiori. Lungo il percorso si recitava il rosario e
si intonavano delle lodi. Si partiva dalla chiesa, si procedeva verso la piazza,
Via San Rocco, Via Villarbasse
e si arrivava in Via Sangano
dove si faceva una sosta; lì era posato un baldacchino portato da quattro
uomini, dove si esponeva il Santissimo Sacramento.
Durante l'estate si facevano le “Rogazioni” per implorare la protezione
sui raccolti. Si raggiungevano dei piloni e delle cappelle nei dintorni del
paese.
A cura di: Graziella Chiavassa Clari
Maria Teresa Pasquero Andruetto