Narrativa
Giovannino
Anna Maria il cappuccetto rosso dei tre confini
Margarita si sposa
Anno scolastico 1946 - 1947
Il bue e l'asinello
I ricordi di Elena Ostorero
L’orfanello della Polatera
Le masche dla Madlena
Lavori d’autunno
Lu Bucinè
“Chissà quant'è bello guardare il panorama
dal treno”, pensava Giovannino guardando la locomotiva che correva lenta
nella valle distesa ai suoi piedi.
“Chissà se un giorno riuscirò a salirci anch'io, su quel
treno... Mi piacerebbe andare fino a Giaveno, a Orbassano, magari addirittura
fino Torino a vedere il re”, disse Giovannino alla Nerina, la sua vacca
preferita. Erano al pascolo a Pietraborga come tutti i giorni, quel 29 luglio
1915. Adesso che la scuola era finita, Giovannino stava sulla montagna con
la piccola mandria dei suoi genitori dalla mattina presto fino al tardo pomeriggio,
quando rientrava per aiutare mamma e papà a mungere le bestie, sazie
della fresca erbetta e dei fiori profumati che nascevano sulla piccola altura
tra Trana, Sangano e Piossasco.
“Chissà se il treno va fino in America?”, pensò
Giovannino sedendosi con il suo fagotto di polenta e toma sul pianerottolo
di pietra da cui si godeva la panoramica migliore, guardando il vapore del
trenino che si alzava fino al cielo e ascoltando il suo fischio risonare tra
le antiche pietre che lo circondavano.
“Chissà se devo ancora studiare tanto alla scuola delle Prese
per poter andare fino in America...
Mi piace imparare a scrivere e a far di conto, ma forse non mi serve mica
tanto se poi devo solo continuare a mandare avanti la cascina di mamma e papà”,
disse ancora Giovannino alla Nerina, che gli rispose con un lungo muggito.
Chissà se nel linguaggio delle vacche quel verso non volesse suonare
come un avvertimento a non sedersi troppo sul bordo della pietra, a non sporgersi
troppo in là per guardare il trenino che scompariva dietro la curva,
a non pensare troppo all'America...
Giovannino fu trovato da suo papà che era già notte. Alla luce
delle lampade a petrolio lui e due vicini di casa, vedendo tornare la Nerina
e le altre vacche senza il piccolo Giovannino, erano usciti a cercarlo, chiamandolo
a gran voce lungo tutto il sentiero che dalle Prese portava a Pietraborga.
Lo trovarono in fondo al dirupo, con vicino il fagotto di polenta e toma e
i sogni infranti dei suoi dieci anni.
Mara Rosso
“Chissà quant'è bello guardare il panorama
dal treno”,
pensava Giovannino guardando la locomotiva che correva lenta nella valle distesa
ai suoi piedi.
Giovannino moriva all’età di dieci anni cadendo da questo dirupo
mentre pascolava le mucche il 29 luglio 1915 sepolto a Trana
Anna
Maria
il cappuccetto rosso dei tre confini
La piccola Anna Maria si svegliò al canto del gallo anche quella mattina
d'ottobre del 1686: doveva rattizzare il fuoco, mungere le mucche e ficcare
le castagne in un fagotto che avrebbe portato a suo papà Giacomo, che
stava tagliando la legna dall'altra parte della montagna con gli uomini delle
Prese di Piossasco, dove vivevano. Poi al ritorno sarebbe passata dalle Prese
di Sangano a trovare i suoi nonni, che sicuramente le avrebbero dato qualche
bella mela succosa da portare a casa per cena. Tutta allegra Anna Maria si
incamminò per il sentiero insieme al simpatico cagnone che le dormiva
sui piedi tutta la notte scaldando lei e i suoi fratellini nelle lunghe ore
invernali, e che la proteggeva dai lupi che ogni tanto sentiva ululare quando
c'era la luna piena e durante le camminate nei boschi, al crepuscolo.
La bimba giunse nella radura vicino a quello sperone roccioso che chiamavano
“pera luvera”, la pietra del lupo (forse perché era proprio
lì che si metteva il bestione per lanciare il suo spaventoso ululato)
che era quasi mezzogiorno. Il papà la accolse con una carezza sul capo,
e tutti gli uomini smisero di lavorare per mangiare un boccone insieme: chi
aveva portato il formaggio, chi il pane, chi una zucca svuotata e seccata
piena di vino fresco. Dopo il pasto, frugale ma pieno di gioia e di canti,
Anna Maria riprese il suo cammino insieme al fido compagno a quattro zampe,
ma non prima di aver stampato un sonoro bacio sulla guancia del papà,
che si raccomandò come sempre: “Fa atension al luv”.
La vispa bimbetta arrivò presto alla casa dei nonni a Ca’Maroun
(Prese di Sangano) con il cane che le trotterellava a fianco, e fu accolta
dai due anziani con mille feste; il nonno stava filando sulla porta di casa,
mentre la nonna sferruzzava seduta all'ombra di un pero. “E la Margarita
a sta bin?”, le chiesero informandosi sulla mamma, che era stata poco
bene durante i mesi estivi. Poi le riempirono la gerla di mele, e la piccina
si avviò verso casa: la strada era ancora lunga, e si stava facendo
tardi. “Fa atension al luv”, si raccomandò il nonno. “Sta
tranquil, a-i é 'l can”, sorrise la bimba salutando i due anziani
con la mano, allontanandosi dalle Prese di Sangano.
Lungo la strada si fermò per raccogliere qualche castagna. Era china
presso un cespuglio quando improvvisamente sentì il cane ringhiare:
oddio, speriamo che non sia un cinghiale, o peggio ancora il lupo, pensò
la piccola voltandosi. Ma fece appena in tempo a vedere il suo cagnone coraggioso
che si lanciava contro un altro cane, magro e sparuto, grigio: no, quello
non poteva essere il lupo, che si era sempre immaginato enorme, regale! Le
due bestie lottavano, i denti rossi del sangue che scorreva dalle loro gole,
quando d'un tratto dal bosco sbucarono altri due cani uguali a quello: la
bimba era immobile, non riusciva a correre via, non riusciva nemmeno ad urlare...
Il corpicino esanime di Anna Maria fu trovato il giorno dopo: sui suoi piedi
giaceva il coraggioso cagnone che aveva cercato di difenderla dai lupi.
Mara Rosso
14 ottobre 1686 Anna Maria uccisa dal lupo
Anna Maria figlia di Giacomo e Margarita giugali (coniugi) Marona delle Prese di Piossasco e stata ocisa dal lupo nella montagna (sul territorio di Sangano) li 14 8bre (ottobre) 1686 et il di seguente e stata sepolta alla Chiesa vecchia del presente luogo (Sangano) intervenendo io sott. alla funzione della sepoltura Artuchio
Pera Luvera vista dalla strada sterrata che dal Campetto tende alle Prese di Piossasco e Sangano
Margarita era il fiore più bello di tutta la montagna,
il giorno in cui andò in sposa a Giuseppe. Si conoscevano fin da bambini:
i loro sguardi si erano intrecciati una mattina di primavera del 1695 a Pratovigero
(Trana), dove Margarita andava spesso a far visita alla madrina Gioannina;
Giuseppe passava per forza anche lui dalla borgata (Prese di Sangano) per
andare a trovare gli zii alle Prese di Piossasco, e quando aveva visto quella
bimba poco più piccola di lui, con le trecce brune e gli occhioni blu,
aveva deciso che sarebbe stata sua moglie. Da allora quegli sguardi si erano
cercati ad ogni occasione, fatti insistenti e, più avanti, anche arditi.
Finché era giunta la proposta di Giuseppe: “Vuoi essere la mia
sposa?”.
Che emozione, per la diciottenne Margarita! Il papà era morto da poco,
e Giuseppe era proprio un bravo ragazzo: avrebbe sicuramente aiutato lei e
la mamma Domenica a fare i lavori più pesanti. E allora via a preparare
il corredo, ricamato con pazienza durante le lunghe ore invernali nella stalla,
col calore delle bestie a riscaldare la pelle e il cuore; e poi ancora in
estate, all'ombra dei meli, mentre le vacche pascolavano beate...
Margarita voleva assolutamente unirsi in matrimonio al suo bel Giuseppe nella
cappella di Santa Maria Maddalena alle Prese di Sangano, dove fin da bambina
aveva deposto le violette e le margherite, quei fiori semplici e delicati
di cui portava il nome, e Giuseppe ne fu ben lieto. Avevano parlato col prevosto,
avevano fissato una data, e naturalmente avevano parlato coi genitori, che
in poche semplici parole li avevano messi di fronte ai doveri coniugali: come
se ne avessero avuto bisogno, con tutti i pomeriggi passati sul prato mentre
le vacche ruminavano su per i pendii, a scoprirsi delicatamente e a promettersi
amore eterno!
Il cielo era terso, quel 19 febbraio del 1708, ma la neve sul sentiero abbondava,
e il parroco Don Bernardino Cuffia (Parrocchia di Trana) dovette partire di
buon'ora per inerpicarsi su per il sentiero “Malpaset” fino a
Pratovigero, dove viveva Giuseppe. Lo sposo indossava il vestito della festa,
così come i suoi fratelli, il testimone e i genitori, emozionati quanto
lui. Si incamminarono e, arrivati alla Fuggeria, presero la scorciatoia che
arrivava sullo spartiacque sopra le Prese (di Sangano), scendendo poi direttamente
alla cappella.
Margarita era lì, bellissima col vestito ricamato, un mazzolino di
fiori secchi fra le mani e le primule gialle tra i capelli, e il cuore di
Giuseppe perse un colpo davanti al sorriso radioso dei suoi occhi...
La funzione fu semplice e delicata come i fiocchi di neve che avevano coperto
la montagna quell'inverno, così come delicata e semplice fu la festa
che seguì a casa della mamma di Margarita: del buon pane cotto il giorno
prima nel forno di Ca' Maroun (Prese di Sangano), augurio ai giovani di non
dover mai patire la fame, e toma profumata dei fiori che le bestie avevano
gustato in autunno. E poi, perché no?, un bicchiere del buon vinello
del Casass (Prese di Piossasco), per prendere coraggio e affrontare un'intera
vita insieme...
Mara Rosso
Prese di Sangano 19 febbraio 1708 S. Maria Maddalena
Giuseppe Cugno della Borgiatta di prattovigero finaggio di Trana, et Margarita figlia del fu Martino e Domenica giugali (coniugi) Spessa delle Prese di Sangano si sono stati congiunti in matrimonio dal Sig. D. Bernardino Cuffia Capellano di Trana di mia licenza nella Cappella di Santa Maria Maddalena in dette Prese di Sangano essendosi antecedentemente fatte le tre solite denuncie in detta parochia essendovi venuto il testimone Giacomo Cugno di detta borgata di pravigero, et Antonio Speso delle Prese di Sangano et questo li 19 febbraio 1708.
La cappella di Santa Maria Maddalena
Anno
scolastico 1946 - 1947
a Pratovigero Trana
1946…2011…Sono semplicemente ricordi o punti
fermi nella vita di un’insegnante?
A distanza di anni tutto pare recente,tutto è vivo, tutto è
un quadro dai contorni ben definiti.
Quello che il tempo chiama “ieri” per il cuore è “oggi”.
Si sfogliano rapidamente le pagine della vita, ma gli affetti, anche quelli
nati tra i banchi della scuola e con gli alunni, non conoscono lo scorrere
del tempo. Sono nostri sempre.
Lontano dicembre 1946: percorro la strada che da Trana va verso Pratovigero
con il cuore che batte forte forte; mi accompagna la voce argentina del Sangone
con le note di mille speranze.
Sono una giovanissima “maestrina”.
La strada sale tra alberi brulli; la neve a già spolverato il paesaggio
circostante… All’imbrunire ecco un gruppo di casette bianche di
calce e con i tetti a lastre di pietra; sullo sfondo un gruppo di scolaretti
che mi vengono incontro titubanti, un po’ spaventati e con occhi scrutatori.
Li sento subito miei; li abbraccio ad uno ad uno. Diventeremo presto una sola
entità; si lavorerà insieme, insieme si ricercherà il
sapere; insieme si scoprirà la vita.
L’aula domina la vallata; la cappelletta ci accoglierà per le
nostre preghiere, il piccolo campanile è quasi a nostra protezione.
E’ qui che si creerà la nostra oasi di pace, di studio, di giochi.
Dopo pochi giorni non salgo più da sola verso Pratovigero , quelli
che oramai sono i miei alunni mi vengono incontro, vogliono portare la mia
cartella, mi offrono fiori di campo; accavallano le voci per raccontarmi le
loro “cose”: il nido scoperto e poi protetto, il cagnolino scappato
durante il temporale, le pecorelle al pascolo, i pulcini appena nati...
L’aula è spolverata e tenuta pulita dalla bambine; la stufa arde
e scoppietta grazie all’impegno dei maschietti. Gli zoccoletti vengono
posati, spontaneamente, nel corridoio-balcone; in classe si entra con le pantofole.
Quale esempio di educazione e rispetto!
Anche il pranzo lo consumiamo insieme; quando a mezzogiorno si aprono i cestinetti
è tutto uno scambiarsi di piccole leccornie, ci sono anche, per la
maestra, le castagne, l’uovo sodo della nonna, la marmellata di frutti
di bosco…
I riccioli di Valeria, il dolce sorriso di Dalia, la serena malinconia di
Teresina, l’esuberanza educata di Renato, Giuseppe, Franco, Ferruccio,
Romano… tutto è ricordo, tutto è nostalgia, tutto è
“oggi”, tutto è mio.
Grazie, alunni di Pratovigero! Io ho dato a voi, ma voi avete dato tutto a
me. Per questo vi porto nel cuore.
La vostra maestra
Mea Sada
Il campanile della cappella di San Pancrazio Pratovigero-Trana
La scaletta il balcone della scuola di Pratovigero - Trana
“Vieni! Vieni! Hanno messo un bambino nella nostra
mangiatoia!” Disse emozionato l’asinello.
“Non fare l’asino, chi vuoi che venga a mettere un marmocchio
sul fieno!” Rispose seccato il bue.
“Eppure è così! Vedessi, è un maschietto biondo”.
“Potrebbe essere una femmina, cosa ne sai? - rispose il bue mentre si
avvicinava - con questo buio è impossibile capirlo”.
“No! Ha il pisellino! Qui c’è luce! Non l’avevamo
mai visto, ma c’è un buco sul tetto e il raggio lunare lo illumina
come se ci fosse il fuoco!”
“Ma qui dentro non è mai entrata nessuna luce! Non dire baggianate!
- disse il bue avvicinando il testone a quello dell’asinello - però,…
il piccino risplende! E’ strano, è molto strano”, bofonchiò
il bue, continuando a guardare la fonte del raggio sul tetto.
“Guarda! Mi sorride!” Continuò l’asinello.
“Ci, sorride”. Precisò il bue.
“Sempre pignolo! Mi, ci, che differenza fa? L’importante è
che il piccolo non abbia paura - rispose l’asinello - è così
gracile!”
“Una ragazza! Sarà la sua mamma? Sta dormendo qui vicino, per
poco non la pestavo”. Disse il bue.
“Sarà - rispose l’asinello - e…guarda all’entrata,
c’è un uomo seduto, sarà il babbo? Da dove verranno?”
“Chi lo sa, comunque il piccino va protetto, la coperta che lo avvolge
è troppo piccola e la notte è fredda. Stiamogli vicino, così
che i nostri fiati lo tengano caldo. Questo bimbo non è come gli altri!”
“Hai ragione - rispose l’asinello - questo cucciolo sembra sceso
dal cielo”.
Il piccino si addormentò con il sorriso sulle labbra e i due lo scaldarono fino all’alba, incuranti del sonno e felici di averlo nella loro mangiatoia.
Sergio Vigna
Michele
Rege
Racconti e ricordi della Valsangone e non solo
I ricordi di Elena Ostorero
raccolti da Michele Rege
Erano gli anni ’40 e la famiglia di Elena con il bestiame
si divideva, secondo le stagioni, tra sänd’Garìda, borgata
di Forno di Coazze, e l’alpeggio estivo al Ciargiur di sotto.
Non mancavano i lavori, le tribulazioni e i disagi. D’estate lassù
al Ciargiur la frutta raccolta l’autunno prima era finita, la verdura
degli orti di montagna, si sa, è scarsissima, e così raramente
si faceva il minestrone, di solito si mangiava latte con il pane o con la
polenta. Polenta calda appena versata a pranzo e abbrustolita al fuoco di
sera.
Con il bel tempo, specie d’estate, non si mangiava a tavola, ma si usava
uscire fuori in cortile, sedersi in giro su scalini e muretti e conversare
con gli altri borghigiani.
Ognuno aveva le proprie stoviglie, i grandi mangiavano nei piatti di terracotta,
“li chiap” e i bambini nelle scodelle di alluminio meno fragili,
“i’ hascöle”. A fine pasto le stoviglie si mettevano
al rovescio sul tavolo, erano al riparo dalle mosche e si faceva a meno di
lavarle, vista la nota scarsità d’acqua di quella dorsale, una
“cara scci”.
Era dura per tutti, ma quelli erano i tempi... e, se poteva essere di consolazione,
arrivavano notizie che in città, a Torino, era anche peggio, tra bombardamenti,
fame e borsa nera.
Elena ricorda quel 10 maggio del ’44. Il lungo inverno che teneva chiusi
in stalla uomini e animali, anche lassù a sänd’Garìda,
era finito e si apriva la stagione del fieno e dell’alpeggio. Quel giorno
era in corso un rastrellamento dei tedeschi, bastava un non nulla, una piccola
traccia del passaggio di partigiani, che davano fuoco alle case, e così
gli abitanti della borgata, per paura, quel giorno si radunarono in una rientranza
ai piedi di una roccia, “’na barma”, a monte delle case.
Per far fare pipì al piccolo Giovanni la mamma di Elena si spostò
dal gruppo di pochi metri girando dietro alla roccia, i tedeschi dall’altra
parte del rio Ricciavrè, dalla borgata “Martinät”
, non esitarono e aprirono il fuoco. Un proiettile colpì la mamma in
piena fronte che cadde morendo all’istante. Si dice che gli abitati
dei “Martinät” avvisarono i tedeschi dello sbaglio, ma a
noi piace pensare che fu quando udirono le urla strazianti della piccola Elena
che cessarono il fuoco!
Poi gli stessi militari tedeschi arrivarono al vicino “Piën di
Casas” nei pressi della miniera di talco e poterono così vedere
la tragedia procurata a quella famiglia. Poterono vedere il corpo di Teresa
Vecco portato giù in borgata su una scala a pioli, il marito che con
gli angoli di un asciugamano gli levava il sangue dal volto, con cura, intorno
al foro rimasto sulla fronte. Poterono sentire le mani della piccola Elena
aggrapparsi ai loro pantaloni mentre, disperata, con i suoi zoccoli di legno,
tirava calci negli loro stivali di cuoio neri e lucidi.
Una primavera che per Elena si trasformò in un lungo inverno durato
per tutta la sua infanzia.
Giovanni e Elena
Giorgetta
Usseglio
L’orfanello della Polatera
Erano tempi in cui molte famiglie adottavano bambini. Qualcuno
lo faceva perché non aveva avuto figli, altri lo facevano per necessità.
Lo stato dava un sussidio a chi prendeva anche solo in affidamento, un bambino.
Con quel sussidio, a volte, mangiava tutta la famiglia. Una cosa triste che
fa pensare, certo, ma la povertà quando è estrema, si deve affrontare
con tutti i mezzi a disposizione.
Alla borgata Polatera c’era una coppia che non aveva avuto figli e decise
di adottarne uno. A Torino alla “Cà granda” (così
chiamavano l’orfanotrofio) era possibile scegliere tra i numerosi bimbi
in attesa di adozione e portarselo a casa senza troppi controlli o burocrazia.
Fu così che il piccolo Giuseppe Marzi arrivò alla Polatera,
una borgata a monte di Maddalena. Venne subito adottato e prese il cognome
di Marzi Usseglio Polatera.
Dopo questa adozione, chissà come, dopo un inverno molto rigido, i
genitori di Giuseppe, ebbero due figli loro, Clemente e Rosa.
Poco tempo dopo la nascita della piccola Rosa, la mamma di Giuseppe, purtroppo,
morì. Il padre si ritrovò solo con tre bimbi da accudire e come
si può ben capire, si perse d’animo…. Così dopo
molte notti insonni e molti ripensamenti, decise che avrebbe riportato Giuseppe,
all’orfanotrofio. Raccolse le sue poche cose in un fagotto e, prima
che facesse giorno, senza troppe parole, si misero in Cammino verso Giaveno.
Dopo un po’ il bimbo chiese al padre:”Ma dove andiamo?”
Non ottenne nessuna risposta. Continuarono a camminare ma il bambino, ormai
aveva capito tutto… Chiese nuovamente al padre: “Dove andiamo,
papà?” Questa volta però la sua voce tremava e il piccolo
non riusciva più a trattenere le lacrime. Il padre lo guardò,
poi lo abbracciò e disse: “A casa, figlio, torniamo a Casa!”.
Nel frattempo, da Maddalena, i giovani cominciarono ad andare in Francia in
cerca di lavoro e Giuseppe non vedeva l’ora di poter partire con loro.
Quando ebbe undici anni il padre lo affidò ad un gruppetto di amici
in partenza per Trappes nei pressi di Parigi dove si trovava lavoro nelle
cave di pietra..
I primi tempi non furono facili perché Giuseppe era troppo giovane
per essere assunto ma lui non si perse d’animo, faceva le commissioni
per gli operai, li aiutava nella cava con qualche lavoretto guadagnandosi
così vitto e alloggio.
Ben presto però Il ragazzo dimostrò di avere una notevole intelligenza
e di avere una volontà ferrea. Imparò il mestiere, presto e
bene. A soli 24 anni era già operaio specializzato e nel 1920 riuscì
a mettersi in proprio, ottenendo la concessione di nuove cave e assumendo
operai, in gran parte provenienti da Maddalena, Giaveno e dintorni.
Nel frattempo Giuseppe Marzi si sposò ed ebbe 4 figli. Finalmente potè
costruire la casa che sognava da tempo, una casa grande, ma molto grande…
in modo da poter dare un tetto ai nuovi arrivati in attesa di trovare una
sistemazione. Davanti alla casa volle un grande spiazzo che chiamava “La
curt” dove ogni domenica si riuniva il personale per mangiare tutti
insieme, suonare, ballare o giocare a bocce. Naturalmente Giuseppe Marzi era
sempre presente in mezzo ai suoi dipendenti. In questo grande cortile, si
salutava chi partiva e si dava il benvenuto a chi arrivava, si festeggiavano
nascite e matrimoni, si facevano le assemblee per parlare dei problemi che
nascevano nell’ambiente di lavoro.
Nel 1932, Giuseppe ha alle sue dipendenze più di 200 operai e più
di 20 impiegati. Decide di destinare un grande terreno di sua proprietà
alla costruzione di un centro sportivo con campi di tennis, calcio, pallacanestro
e bocce. “L’Etoile sportive de Terappes”.
Intanto gli operai, inizialmente quasi solo scapoli, fanno arrivare le fidanzate
e mettono su famiglia. Nascono dei veri e propri paesi di piemontesi dove,
per non sentirsi troppo lontani da casa, si parla il dialetto e si rispettano
le tradizioni delle origini.
Giuseppe è un uomo onesto e generoso, aiuta i nuovi arrivati a trovare
una sistemazione, dona loro dei pezzi di terra a prezzi bassissimi e lunghe
dilazioni.
Giuseppe Marzi muore il 9 Gennaio del 1953, lo stesso giorno in cui era nato,
e chiede di essere sepolto con la sua vecchia divisa da minatore che ha conservato
gelosamente. Camicia bianca di tela, pantaloni di velluto e la “scirfa”
Una lunga cintura di cotone che si avvolgeva a più giri intorno alla
vita.
Del miracolo operato dall’orfanello della Polatera, ormai non è
rimasto quasi niente ma, a Chevreuse, un paese vicino a Trappes, esiste ancora
una comunità di piemontesi dove, dopo più di ottant’anni,
la maggior parte dei cognomi suona famigliare e molti, anche trai i giovani,
ricordano ancora il nostro dialetto e vanno fieri delle loro origini.
Chevreuse è da molti anni, gemellato con Giaveno e ogni anno ci si
incontra ed è sempre una bellissima festa tra amici che si sentono
tali anche senza conoscersi troppo bene perché hanno radici in comune.
(Queste notizie, le ho avute in parte, dalla figlia di Marzi, Josette, ancora
vivente e in parte, dai racconti di mio nonno e di tanti altri perché,
a Maddalena, di Giuseppe Marzi, parlavano proprio tutti)
Oggi piove, quindi non esco, perciò scrivo.
Questo racconto mi è stato suggerito da un cugino di mia moglie, incontrato
sopra le borgate del Forno di Coazze, Domenica scorsa, il giorno di S.Giuseppe.
Userò nomi di fantasia, anche perchè i veri nomi si sono persi
nella " notte dei tempi ".
I fatti si sono verificati verso l'inizio del 1800, e per comprendere meglio
lo svolgersi degli avvenimenti, occorre immedesimarsi nel modo di essere,
di comportarsi, il vivere di quei tempi e di addentrarsi nelle pieghe delle
menti dei nostri predecessori.
Si racconta di un giovanotto del Ciargiur, tale Piero, detto " lu Gagia
" che aveva la fidanzata alla Maddalena di nome Lisa.
Piero Gagia, ogni Domenica si recava a piedi passando dal Colletto del Forno,
arrivava alla Maddalena nella tarda mattinata e si recava dalla sua Lisa,
che immancabilmente si trovava a filare la lana con le sue amiche.
A Piero Gagia non mancava la parlantina, ma non disdegnava nemmeno passare
dei momenti in intimità con Lisa, ma lei, come sempre non si voleva
allontanare dalle sue amiche.
Si deve sapere che appeso al fuso, usato per filare, ogni ragazza teneva una
specie di nastro di stoffa lungo 2-3-metri, (una bindela ) finemente ricamato
e ognuno diverso dall'altro.
Quella domenica, Piero Gagia, si indispetti e staccò la bindela dal
fuso di Lisa, se lo mise nella tasca della giacca e si avviò verso
un fienile poco lontano, sicuro che Lisa l'avrebbe seguito, se non altro poteva
addurre la scusa del recupero del mal tolto; invece lei non si mosse.
Piero Gagia attese una mezz'oretta inutilmente; comprese che Lisa non sarebbe
venuta, la sua" tela di ragno" non aveva funzionato, depose le armi
e ritornò da Lisa e dalle sue amiche, rimase ancora un pò di
tempo e poi decise di ripartire verso casa prima che facesse buio; salutò
tutti e prese la strada del ritorno.
Era arrivato quasi al Colletto del Forno quando iniziò ad udire dei
rumori, non rumori grevi, ma come se qualcuno lo stesse seguendo.
Si fermò, ma per quanto guardasse attentamente non vedeva nulla di
sospetto. Riprendeva a camminare e nuovamente quei rumori, finche si voltò
di scatto e vide che a seguirlo era un piccolo vitello.
Si domandò di chi potesse essere, non aveva visto nessuna mucca al
pascolo nelle vicinanze, ne esistevano stalle dalle quali potesse essere fuggito,
guardò tutto attorno, ma all'infuori di lui e il vitello, non c'era
nessuno. Decise di portarselo a casa, un vitello è pur sempre un valore,
almeno non si potrà dire che era stata una domenica infruttuosa. Cercava
qualcosa per legarlo e frugando nelle tasche trovò la bindela della
Lisa,:«Porca miseria, mi sono dimenticato di restituirgliela»:,
pensò; legò il vitello e se lo tirò dietro.
Percorse poche decine di metri, quando il vitello lo spinse giù dal
sentiero riuscendo a liberarsi della mano di Piero e si allontanò correndo
con la bindela legata al collo. Appena risalì sul sentiero, Piero Gagia
cercò di capire se avrebbe potuto riprendere il vitello, ma vi rinunciò,
raggiunse la sua borgata e raccontò l'accaduto ai parenti ed amici;
tutti dissero che se lo era sognato, ma nei giorni seguenti furono parecchi
a gironzolare dalle parti del Colletto del Forno, alla domenica successiva,
Piero Gagia, si recò nuovamente da Lisa alla Maddalena, era sua intenzione
chiederle scusa, per aveva perso la sua bindela, ma la sua sorpresa fu enorme
nel trovare Lisa a filare con la sua bindela appesa al suo fuso.
Ecco dove trova conferma il famoso detto "Le masche dla Madlena"
Giorgetta
Usseglio
Lavori d’autunno
A fine agosto era tempo di togliere le patate, poi a settembre
si raccoglieva la poca frutta che maturava, qualche pera invernale e qualche
piccola mela dal gusto delizioso, varietà ormai quasi scomparse "li
bianchèt, li picu lunc, li cantin, li barbarot e li magnana",
poi noci, nocciole e, infine le zucche, bellissime e colorate, piccole e grandi,
quasi sempre tonde, alcune verdi, altre striate, arancio, giallo o rosso intenso.
Si portavano a casa con la gerla, a volte erano così grandi che ce
ne stava una sola, venivano disposte ordinatamente nel fienile a completare
la maturazione, per poi finire durante l'inverno, sia nelle nostre minestre
che in quelle delle nostre mucche.
Con la Fiera di ottobre iniziava la stagione delle castagne, all’inizio
si raccoglievano solo quelle che cadevano spontaneamente dagli alberi, naturalmente
ognuno raccoglieva soltanto sotto il proprio albero, e guai a scartare di
un solo metro! I ricci sono rotondi e rotolano, anche se le spine li frenano
un pochino e questo era un problema. Per evitare che finissero sotto un castagno
di un altro proprietario, si disponevano ad arte, delle assi nei punti critici
per arrestarli.
Quando i ricci erano ben maturi e cominciavano ad aprirsi con una lunga pertica
si battevano i rami per farli cadere tutti, quindi per raccoglierli ci si
muniva di una speciale pinza di legno, molto leggera e flessibile "la
pesiojri", si portavano vicino alle case con le ceste e se ne faceva
un bel mucchio. Finita la raccolta si ricopriva “l’arisè”
con uno strato di felci e si aspettava che i ricci fermentando, si ammorbidissero.
Per facilitare la fermentazione occorreva mantenere i ricci umidi, infatti
se non pioveva, bisognava bagnarli ogni giorno.
Verso novembre i ricci erano diventati scuri e teneri, si aprivano facilmente,
allora con un altro attrezzo simile ad una piccozza di legno, "lu pic",
si facevano uscire tutte le castagne, quindi si dividevano quelle più
belle e grandi che venivano vendute, da quelle più piccole che venivano
utilizzate in diversi modi: bollite o caldarroste oppure seccate, private
della buccia e della seconda pellicina e riposte in sacchi di tela, queste
si conservavano per un anno intero senza problemi.
Le castagne, come le patate, erano molto importanti perché servivano
a sfamare sia gli animali che le persone.
La sera precedente la commemorazione dei morti, mia nonna faceva bollire una
pentola di castagne che poi metteva in una ciotola in mezzo al tavolo della
cucina, avrebbero dovuto mangiarle le anime dei defunti che in quella notte,
pare vagassero nelle case dove erano vissuti; il mattino seguente, la nonna
controllava la ciotola e ogni volta il commento era sempre lo stesso: "
an pa pöi mingiana tante.. a sran pa stà bune..." (ne hanno
mangiate ben poche, non saranno buone…)
Giorgetta
Usseglio
Ancora qualche mestiere del tempo che fu...
"Lu Bucinè"
I negozianti di bestiame erano più di uno, facevano il giro delle borgate
più volte l'anno, generalmente lo scopo era quello di comprare i vitellini
da latte ma anche le mucche ormai troppo vecchie per figliare, e venderne
di giovani da allevare.
Arrivavano dal paese e si davano un sacco di arie, ne ricordo uno in particolare,
grande e grosso, portava un fazzoletto annodato al collo, il panciotto e la
giacca di velluto, profumava di Colonia da lasciare la scia, non perdeva l’occasione
di mostrare il portafogli, con tanti scomparti e gonfio all’inverosimile.
Non so se di soldi o di cartacce…
In mano portava sempre un bastone sottile e flessibile, non lo usava per appoggiarsi
ma solo per gesticolare, lo faceva roteate, ci giocava facendolo scivolare
tra le dita e non lo lasciava mai.
Entrava nella stalla, guardava l'animale da comprare, quasi di sfuggita, lo
toccava appena con il bastone per farlo girare e vederlo da tutti i lati,
poi usciva.
La trattativa si teneva nel cortile ed era sempre un contrattare molto animato
con il proprietario che voleva ricavare il massimo dalla sua merce e il compratore
che voleva spendere il meno possibile. Alla fine se si accordavano, il contratto
veniva suggellato con una stretta di mano.
Quando il “Bucinè” se ne andava, profumava un po’
meno di Acqua di Colonia e un poco più di stalla, ma sicuramente l’affare
lo aveva fatto lui….
"Lu Ciavatin, lu Mis da bò e lu cavagnè"
Ovvero, il calzolaio, il falegname e colui che costruiva ceste, cestini e
gerle. Sono tre mestieri diversi fra loro ma li accomunava il fatto che tutti
lavoravano a casa propria, non erano loro a spostarsi ma era la gente che
andava a cercarli quando necessitava la loro opera. Tutti quanti avevano un
piccolo laboratorio con gli attrezzi che servivano. In questi laboratori si
lavorava quasi sempre con la porta aperta, anche in inverno perché
le finestre, una volta erano piccole e la luce che entrava era poca.
Il calzolaio riparava tutti i tipi di scarpe, le ricuciva le risuolava, metteva
toppe e chiodi ma soprattutto, costruiva gli zoccoli di legno che, di tanto
in tanto si vedevano ancora ai piedi di qualche anziano.
Nella bottega del falegname non c’erano macchine utensili, solo pochi
attrezzi molto semplici, qualche sega, una pialla, un martello, un cacciavite
e poche altre cose, per lo più il falegname, costruiva o riparava sedie
e tavoli, porte e finestre, tagliava assi e pezzi di legno di misura su richiesta
del cliente. Riparava i recipienti di legno che servivano per abbeverare le
mucche "Li siun" , erano una specie di grandi secchi costruiti con
aste di legno sottili, tenute insieme da due o più cerchi di metallo,
quasi simili ad una piccola mezza botte.
Ricordo “Lu Delfin du Buè” il falegname della Viretta,
era un omone grande e grosso con i capelli rasati. Indossava sempre una tuta
blu da lavoro, non l’ho mai visto con altri vestiti. Aveva il suo laboratorio
nella borgata e viveva solo, o meglio in compagnia dei suoi numerosi gatti,
con loro parlava tutto il giorno e di notte dormivano con lui, tutti nello
stesso letto, in questo modo evitava di accendere la stufa per scaldarsi.
"Lu cavagnè" oltre ai cestini, costruiva le gerle, “li
garbin”, ossia l'attrezzo principale per il lavoro in montagna.
Nella gerla si portavano a casa l'erba, le foglie secche, la frutta, le zucche
e le patate, ma anche la spesa, il pane e le farine. Quando la gerla era un
po’ consumata, la si usava per portare nei campi il letame, prima della
semina.
Per fare i cestini si usavano i rami di salice, mentre per le gerle, i giovani
rami di castagno o di frassino, più flessibile e leggero, ma il procedimento
era simile. I rami scelti con cura, venivano immersi in acqua per diversi
giorni, al fine di renderli più morbidi, quindi venivano privati della
corteccia e, con l’aiuto di un coltellino molto affilato, venivano ridotti
in lunghe strisce sottili “’l ghiue” . Per prima cosa si
costruiva l’anima dell’oggetto, cioè la struttura, usando
dei rami interi che dovevano essere più robusti, poi, intorno alla
struttura, si intrecciavano le striscioline ottenute in precedenza, in modo
da richiuderla tutta e ottenere un capace contenitore.
Sia la gerla, sia i cestini, dovevano essere leggeri ma robusti e chi li costruiva,
se sapeva fare bene il suo mestiere, era tenuto in molta considerazione.
I cestini li costruivano un po’ tutti, mentre per le gerle, il discorso
era diverso, bisognava essere veramente del mestiere e qui, gli esperti erano
alla borgata Pomeri. Il papà dell’amica Ermanna era uno di loro,
bravo, esperto, conosciuto e stimato da tutti.
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Maria Teresa Pasquero Andruetto